Wednesday, December 29, 2010

La logica di Mr Calderoli

Mentre rileggevo alcuni articoli scritti dai miei studenti del Master, me ne stavo “sintonizzato” su YouTube. Per avere compagnia e imparare qualcosa di nuovo, ho ascoltato una intervista a Pino Aprile, invitato a parlare di un suo libro dal titolo Terroni. A parte il desiderio di leggere il libro, sono stato scosso--letteralmente!--da un aneddoto che veniva citato dall’autore. Eccolo qua.
Pino Aprile ha ricordato una frase di Mr Calderoli. La frase è la seguente: "La fogna va bonificata e visto che Napoli oggi è diventata una fogna bisogna eliminare tutti i topi, con qualsiasi strumento, e non solo fingere di farlo perché magari anche i topi votano..." Ho trovato il riferimento corretto sul sito repubblica.it [link all’articolo]. Questa sparata, francamente, me la ero persa. Accadeva il Novembre del 2006.
Ora, prima che scriva qualcosa d’altro devo fare due premesse. La prima riguarda il personaggio. Qualcuno potrebbe pensare, e a ragione devo dire, che, data la levatura intellettuale e morale del personaggio, non varrebbe la pena sprecare del tempo a commentare quella che appare uno sproposito a chiunque abbia ancora del sale nel cervello. Nonostante la caratura del personaggio, non ritengo sia corretto minimizzare(vedi alcuni dei commenti riportati nell’articolo di Repubblica sopra citato) il significato e la portata della boutade. Affermare “Ma dai, si tratta di quel poveretto di Calderoli: che ti aspettavi… lascia perdere!” sembra più utile per scaricare la coscienza che altro. Al contrario, certe affermazioni devono essere condannate a prescindere dalla provenienza.
La seconda premessa riguarda il fatto che Mr Calderoli è un uomo politico. Il suo partito ha raggiunto un notevole successo elettorale ultimamente. Recenti sondaggi danno la Lega Nord al 12% circa. Gli esponenti di quel partito non prendono le distanze da quanto affermato; al contrario, il partito ha una storia di esternazioni simili tanto da essere riconosciuta ed indicata, a livello internazionale, come patito “di estrema destra” (Semier, 2001), “xenofobo” (The Economist, 2006, 2008), o addirittura partito “razzista” (Randall, 2009). E allora? Beh, allora ci sono molte persone che sono portate a non dare il giusto peso a queste affermazioni e che votano comunque per la Lega Nord.
Come molti hanno sottolineato, la frase pronunciata dal prode leghista ricorda la propaganda nazista durante la persecuzione degli ebrei. Dove sta la gravità dell’affermazione? Ci sono diversi livelli di interpretazione. Il primo è quello letterale, ovvero il paragone tra un luogo putrido e maleodorante, un fetido animale che popola quei luoghi, da un lato, e una città e i suoi cittadini, dall’altro. Questo livello di interpretazione non si addice nemmeno a discorsi cosiddetti “da bar”. Tuttavia, ipotizziamo che sia ok per un discorso da bar. Siamo all’insulto. Gratuito. Molti napoletani si sono fermati a questo livello di interpretazione. Hanno preso l’esternazione per insulto e, da persone intelligenti---de minimis non curat praetor!---, hanno lasciato correre. L’insulto cade come acqua sulla roccia perché palesemente insensato e ingiusto. Spero Mr Calderoli e il suo partito voglia includere anche me come napoletano adottivo, nella sua lista personale degli individui da eliminare. Ne sarei soltanto onorato!
Andiamo avanti ad un altro livello di interpretazione e chiediamoci quali siano i criteri politici di giudizio per Mr Calderoli. Se ne intravedono tre: (1) distinguere i cittadini italiani per categorie nette di provenienza, razza, casta, o altro, che indicherebbero una qualche deficienza o disfunzione intrinseca; (2) individuare luoghi geografici (come le città, per esempio) nei quali ci sarebbe una concentrazione di questo fenomeno o disfunzione; (3) eliminare la disfunzione con “qualsiasi strumento.” Il primo criterio è tipico di ragionamenti sommari, non elaborati e rozzi. Si individua una categoria di persone, si ipotizza che certi tratti siano preponderanti, e si estende il giudizio a tutta la categoria (nota fallacia logica che va sotto il nome di hasty generalization o generalizzazione approssimativa; vedi Woods 2004 per dettagli). Lo stesso approccio è usato con gli immigrati clandestini. Si ipotizza che la maggioranza sia composta da criminali dunque, affrettatamente, si estende la stessa valutazione a tutti quanti. Anche ammettendo che i criminali siano 80% del gruppo in questione, cosa giustifica penalizzare il rimanente 20%? Che ragionamento è questo? Sicuramente non è un ragionamento logico. E penso sia evidente di che tipo di ragionamento si tratta. [ovviamente, non ci sono dati certi sul tasso di criminalità dei clandestini; sappiamo solo che l’equazione immigrazione clandestina = criminalità è senz’altro sbagliata, dati alla mano] Insomma, la “disfunzione” è solo presunta e il ragionamento illogico. 
Brevemente, il ragionamento logico corretto sarebbe opposto: si puniscono i criminali in quanto tali, non Rom, clandestini, napoletani, sardi, etc. in quanto si presume siano criminali!
Il secondo criterio, quello di individuare luoghi geografici in cui vi sia una certa “disfunzione” è tipico della Lega Nord. Cosa spinga quelli che votano per questo partito a pensare che il Sud Italia sia un fardello inutile, non lo ho mai capito. Dal punto di vista strettamente utilitaristico (che sembra quello adottato dalla Lega), il Sud Italia ha fornito alle imprese del Nord (a) manodopera e (b) mercato. Senza gli italiani del Sud sarebbe stato impossibile produrre ai ritmi imposti dal mercato (negli anni ’60 e ’80) e le imprese sarebbero state costrette ad esportare invece di distribuire i prodotti su tutto il territorio italiano. Il mercato unico italiano ha dato margini di sviluppo alle imprese. Insomma, questo è quanto si impara al primo anno di economia ad una qualsiasi università: disponibilità della forza lavoro e dimensione del mercato interno (o nazionale) sono due fattori fondamentali per la crescita. Separare l’Italia (che, nonostante tutti i limiti, costituisce uno degli Stati più ricchi del mondo) penalizzerebbe il Nord Italia, che potrebbe tutt’al più assomigliare ad una versione fascista della Repubblica Ceca. Se di disfunzione si tratta, questa può essere meglio analizzata e affrontata a livello statale (e probabilmente europeo) che non a livello locale. Lo sviluppo e la ricchezza di una parte dello Stato porta, in ragione delle sinergie esistenti, allo sviluppo e alla ricchezza dell’altra parte. Questa è una delle evidenze che emergono dal processo di unificazione dell’Europa, possibile che certi politici italiani ancora non lo abbiano capito?
Il terzo criterio è davvero inaudito. Cosa significa eliminare la disfunzione “con qualsiasi strumento”? A che tipo di eliminazione fa riferimento Mr Calderoli? Di solito, seguendo l’analogia, derattizzare significa eliminare fisicamente i ratti. E per quale motivo si dovrebbero ammazzare gli abitanti di Napoli? Il motivo è suggerito dallo stesso Mr Calderoli: perché questi signori e signore non votano come dovrebbero. Come è possibile che si arrivi a tanto? Come mai gli altri leghisti non si dicono indignati di un simile parlare? Dobbiamo dedurre che questa è la linea del partito, un partito razzista a tal punto da ammettere che una delle soluzioni per risolvere i problemi sia una estrema brutale guerra civile di annientamento dei presunti disfunzionanti. È questo ciò che vogliono?
Infine, da Ministro della Repubblica, Mr Calderoli ha giurato su di un pezzo di carta nel quale si trovano scritte le seguenti cose: (I) la Repubblica “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo” (art. 2), (II) “[t]utti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3), e inoltre (III) “[è] compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3). A cosa pensava durante il giuramento il nostro campione di razzismo? E soprattutto, Costituzione alla mano, come mai Mr Napolitano non si è opposto alla nomina di questo devastatore di carie?
Caro (mica tanto!) Mr Calderoli… mi vien da chiedere: sei mai stato a Napoli? Se ci sei stato, non ti ha colpito la magnificenza della città e della sua gente? Non hai sentito il senso di inclusione e calore trasmessa per le strade? Non ti ha commosso la regolarità del caos cittadino? Non sei stato rapito dai colori e dalla maestà di tutto quanto ti circonda? Insomma, anche se sommersa da tonnellate di immondizia, solo un cieco potrebbe non vedere cosa sia realmente Napoli. E tu sei superficialmente cieco, Mr Calderoli. Sono sicuro che nella tua carriera da dentista hai avuto modo di fare del bene. Ecco, continua ad occuparti di questioni di carie e otturazioni, quello è il tuo mondo. Io e molti altri, spero, abbiamo capito che, da uomo politico e, ora, da ministro di una repubblica che si vorrebbe democratica, semplicemente sei inadeguato. Fai un favore a te stesso: dimettiti!
Bibliografia citata
Economist (2006, August 21). Sing a song of xenophobia. The Economist. Retrieved online 01/03/2009 17:27 PM (US central time) at http://www.economist.com/world/europe/displaystory.cfm?story_id=7855542
Economist (2008, May 22). Rome vs Roma. The Economist. Retrieved online 01/03/2009 17:32 PM (US central time) at http://www.economist.com/world/europe/displaystory.cfm?story_id=11412932
Randall, F. (2009). Italy’s new racism. Nation, 288(4), 16-17.
Semier, P. (2001). A sword over Europe. New Statesman, 130(4537), 32-33.
Woods, J. 2004. The Death of Argument. Dordrecht: Kluwer.

Wednesday, December 22, 2010

Extendable Rationality

Il libro Extendable Rationality. Understanding Decision Making in Organizations e' finalmente uscito per i tipi della Springer Publishing.



Grazie a tutti per il sostegno!

Tuesday, November 30, 2010

“Se i ricercatori se ne vanno… portano via il futuro!”

Ho ascoltato questa frase uscire dalla bocca di una ricercatrice italiana, ospite alla trasmissione “Vieni via con me” di lunedì 29 Novembre 2010. 
I ricercatori se ne vanno… “So what?” mi verrebbe da scrivere. Vale a dire, e con questo? Il problema non e’ tanto che i ricercatori se ne vanno dall’Italia ma che non ne arrivano. Cerco di spiegarmi meglio.
Il ricercatore entra a far parte delle università, non a caso. Esiste un mercato del lavoro che mette in relazione l’offerta di lavoro, ossia le esigenze delle università e degli istituti di ricerca, con la domanda di lavoro, cioè il bisogno dei ricercatori di trovare una posizione consona alle proprie competenze. In un passato non troppo lontano, l’incontro tra domanda e offerta avveniva all’interno del mercato nazionale. In sintesi, ricercatori italiani erano assunti in istituti italiani, quelli francesi in istituti francesi, quelli inglesi in Inghilterra, etc. Una certa mobilità, tuttavia, c’è sempre stata. Gli atenei e i centri più importanti attirano, solitamente, le menti migliori. Per questa ragione abbiamo Oxford e Cambridge, per esempio. Questa tendenza ad andare a cercare lavoro in mercati di altri paesi si è accentuata, recentemente. Per quale ragione? Ci sono due fattori “strutturali” per così dire. Il primo riguarda quanto avviene in tutto il mondo. La facilità di accesso all’informazione porta, da un lato, gli istituti di ricerca e le università a pubblicare gli annunci di lavoro in siti Internet specializzati (quelli delle associazioni professionali suddivise per disciplina scientifica), e dall’altro lato, i ricercatori a consultare quegli elenchi e sottoporre le proprie domande di lavoro ad istituti diffusi su tutto il territorio mondiale. Il secondo fattore riguarda l’Unione Europea e una delle quattro libertà garantite dai Trattati: quella di movimento delle persone. I ricercatori italiani sono anche ricercatori europei. Questo significa che, come ogni altro lavoratore, possono accettare un lavoro in qualunque ateneo o centro di ricerca europeo senza dover morire sotto il peso della burocrazia.
Esiste un caveat a questo ragionamento: il fatto che le università possano e vogliano accettare domande ed eventualmente assumere personale dall’estero. Le università italiane, per esempio, non lo fanno. E questo è testimoniato anche (e soprattutto) dal fatto che i programmi di dottorato italiani hanno una percentuale molto bassa—irrilevante—di studenti stranieri. L’Italia della ricerca non è attrattiva, fallisce esattamente dove dovrebbe eccellere.
Il dramma di questa ennesima riforma dell'università non è quella di chi, selezionato dal barone di turno (ancora l’unica via per avvicinarsi al mondo della ricerca in Italia), non viene assunto o non progredisce nella carriera. Il dramma non è che le università private siano avvantaggiate. Anche se il modello europeo non si basa su questo, immagino che avere due o tre Bocconi sul territorio nazionale non sia esattamente un danno.
Il dramma è che la riforma fallisce, per l’ennesima volta: (a) nel garantire che gli atenei italiani possano aprire le porte ai ricercatori migliori e assumere “globalmente” o su base continentale; (b) nell’indicare criteri di valutazione e assegnazione di fondi e avanzamenti di carriera più oggettivi e condivisi, basati sulla responsabilizzazione degli atenei e non sul criterio della punizione (come sembra emergere dallo stato attuale delle cose); (c) nel fornire le università e i centri di ricerca delle risorse necessarie, pari a circa 1.8 o 2.0 punti percentuali sul prodotto interno lordo. Il punto (b) implica che occorra dare autonomia agli atenei, in modo da consentire assunzioni “libere” di ricercatori, secondo criteri stabiliti da Facoltà e/o Dipartimenti, tenendo conto che le risorse dovrebbero poi essere distribuite in funzione della produttività scientifica (in primis) e della qualità dell’insegnamento. Dunque, quando un ateneo assume degli asini, ossia utilizzando criteri di selezione del personale che non siano sufficientemente rigorosi, si ritrova a dover sopravvivere con meno fondi. In sostanza, ogni ateneo è artefice del proprio destino.
In sintesi, il futuro del paese è a rischio non perché i ricercatori se ne vanno ma perché non ci sono le condizioni per assumere “globalmente” e garantire una “sana” diversità all’interno degli atenei e centri di ricerca:
Se i ricercatori non sono attratti dall’Italia… non c’è futuro!

Saturday, October 30, 2010

Nascondersi dietro un dito

Oggi, come tutte le mattine, ho aperto la email e il server ha iniziato a scaricare la posta. Fortunatamente, l'università per la quale lavoro ha un filtro anti-spam che funziona particolarmente bene così che non ricevo email di pubblicità inutili. Da quando ho pubblicato, insieme ad Emanuele Bardone, il libro Uniti e diversi sotto il patrocinio  della Fondazione Italia-USA, ricevo delle comunicazioni da parte di questa organizzazione su eventi, novità e altro. La email ricevuta questa mattina mi ha lasciato “di stucco”, scriverebbe mio Nonno. L’inizio mi aveva incuriosito:
“Indipendentemente dalla coloritura politica (sia il centrosinistra che il centrodestra sono stati penalizzati in questo senso dalla profonda immaturità culturale e politica del palazzo) l'indicazione degli elettori è sempre apparsa come un qualcosa di ininfluente e secondario”.
A scrivere è Mr Ghirlanda, parlamentare italiano (che ha perso una virgola prima di “l’indicazione”) e presidente della Fondazione Italia-USA. Il pezzo dal titolo “L’indicazione degli elettori? Ininfluente e secondaria” è apparto online, nel sito http://www.affaritaliani.it/politica/sistema_elettorale291010.html. L’occasione è quella di paragonare alcuni aspetti del sistema italiano a quello degli Stati Uniti.
Dalla frase riportata sopra non appare, tuttavia, chiaramente quali siano i contenuti del pezzo. A cosa ci si riferisce con le parole “indicazione degli elettori”? Si tratta del voto, ovviamente. La immaturità politica e culturale di cui sopra è da riferire al fatto che gli uomini politici non rispettano il mandato degli elettori, rendendo il voto (indicazione) ininfluente e secondario. Ora, a che proposito si scrive questo? Ecco cosa scrive Mr Ghirlanda:
“Un'anomalia tutta italiana, questa che non si limita alla legittimazione del primo ministro, ma coinvolge ormai significative componenti dello stesso Parlamento al di là degli schieramenti. Anche qui dimostrando una totale immaturità politico-culturale che porta il nostro Paese sempre più lontano dalle consolidate democrazie non solo anglosassoni, ma occidentali in generale. Qualcuno ha mai visto gruppi di decine di parlamentari eletti in uno schieramento del Bundestag tedesco o della Camera dei Comuni inglese passare in massa, ad esempio, dallo schieramento laburista a quello conservatore? O addirittura creare nuovi partitini abbandonando lo schieramento che ha garantito loro il seggio?”
La risposta è no, nella norma il “salto della quaglia” è un fenomeno nostrano. E tuttavia, abbiamo assistito molte volte a questi eventi, sia nel corso della prima che della seconda repubblica. Un altro passaggio dell’articolo può essere d’aiuto:
“[N]essun membro della Camera dei Rappresentanti o del Senato degli Stati Uniti si è sognato di cambiare casacca, consapevole che tale comportamento avrebbe segnato la sua fine politica, attraendo verso di sé il disprezzo dei suoi elettori e dell'opinione pubblica più in generale.”
Dunque, Mr Ghirlanda è giustamente preoccupato da quanto accade nel parlamento italiano e dal fatto che alcuni parlamentari possano cambiare schieramento o la propria “lealtà” nei confronti del governo. Come mai questo può avvenire in Italia?
Due considerazioni. La prima è che la classe politica rappresenta i cittadini. Intendo con questo affermare che la classe politica è specchio della società e cultura italiana. Il fatto che il “salto” non sia punito dagli elettori alla successiva tornata elettorale, fa cadere l’ipotesi che l'immaturità sia da imputare a politici e classe politica in generale. Il voto è, in ultima istanza, il meccanismo di controllo e “punizione” del cambio di casacca dei parlamentari e dei giochi cosiddetti “di palazzo”. Tuttavia, la punizione non si è mai verificata, se non nel brevissimo termine e con effetti trascurabili. Il Parlamento italiano è infatti popolato, per quanto riguarda i “notabili” di ciascuno degli schieramenti, dagli stessi individui da circa vent’anni. Il punto diventa: sono i cittadini che dovrebbero educare i politici o viceversa? Ha senso parlare di educazione o maturità in questo caso?
La seconda considerazione riguarda la particolare condizione che il paese attraversa attualmente. Volendo essere franchi e andare fino in fondo con i paragoni, è improbabile che negli Stati Uniti e in altre democrazie si verifichino fenomeni quali: 
  • legare le sorti di un governo all’approvazione di alcune leggi nel corso della legislatura; per esempio, pensate che Mr Obama si sarebbe dimesso nel caso la riforma della sanità non fosse passata? Negli USA il meccanismo di votare e “porre la fiducia” al governo in contemporanea non esistono; il Presidente è responsabile di fronte alla Costituzione e ai cittadini anche quando alcune leggi non sono approvate dai due rami del parlamento;

  • ammettere la candidatura a presidente del consiglio/repubblica di un individuo con numerosi e significativi interessi finanziari ed economici nel paese; in Italia manca una legge antitrust, capace di garantire il fatto che coloro i quali sono chiamati a governare e fare le leggi cadano nella tentazione di favorire i propri interessi personali (estesi ai familiari, ovviamente); chi entra in politica, negli Stati Uniti, deve dimostrare di non avere interessi personali e diretti con il substrato economico-finanziario e produttivo del paese; inoltre, la trasparenza nella raccolta e gestione dei fondi del partito è condizione fondamentale;

  • totale indifferenza per gli scandali e le vicende personali; la maggior parte dei governanti in paesi quali Germania, U.K., Danimarca, Svezia, U.S.A., e molti altri, si sarebbero dimessi dalla carica non appena indagati per uno qualunque dei reati imputati all’italianissimo Mr B. La ragione che porta alle dimissioni è semplice. In una democrazia ciò che conta più delle vicende personali dei singoli capi di partito/governo sono le sorti del paese e il bene comune. Solitamente, gli scandali e le vicende giudiziarie comportano una riduzione del supporto elettorale e aumentano il rischio che i voti si disperdano. Qualora il partito ritenesse che l’agenda politica fosse più importante della persona scelta per portarla avanti, le dimissioni (e l’allontanamento temporaneo dalla scena politica) sarebbero benvenute. Gli elettori solitamente premiano un partito in grado di fare chiarezza al proprio interno e di mettere il funzionamento della democrazia davanti alle vicende personali (Nixon ricorda qualcosa a qualcuno?);

  • indifferenza per le vicende personali e private del primo ministro o del presidente della repubblica; su questo punto, lo squallore italiano ha ormai raggiunto un livello che non è possibile commentare;

  • approvare leggi che garantiscano l’impunità a una o specifiche categorie di persone, che siano palesemente incostituzionali, o che abbiano xenofobia, discriminazione e razzismo quali criteri ispiratori;

  • espulsione dal partito per "reati" di opinione, come avvenuto fondamentalmente a Mr Fini e altri parlamentari della destra e, in circostanze e condizioni differenti, a Mr Grillo (nemmeno ammesso) e Mr Vendola, per la sinistra.

Mi fermo qua, penso sia sufficiente. Insomma, Mr Ghirlanda individua un punto probabilmente secondario, se confrontato con altri, ben più rilevanti. Inoltre, non sarei cosi interessato ai “tradimenti” (come nell'articolo citato sopra) dei parlamentari ma alla loro coscienza. Se fossi un elettore democratico e repubblicano della destra, per esempio, chiederei agli eletti un comportamento politico basato sul buon senso; pertanto, l’espressione del dissenso al governo, anche se parte della maggioranza, dovrebbe essere garantita, rispettata, promossa. 
Concludo con una frase che ho trovato in rete: chissà da dove arriva…
“Articolo 67. Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”

Sunday, October 24, 2010

L'importanza di essere analfabeti

In uno degli ultimi numeri della prestigiosa rivista Nature (Vol. 467, No. 7315, p. 499) si legge che le università e i centri di ricerca tedeschi hanno ripreso a contribuire significativamente all'avanzare della scienza. Questo risultato si deve ad un piano di investimenti nella ricerca che ha portato i diversi livelli di governo (soprattutto quello federale) a sostenere e migliorare le infrastrutture preesistenti. Non si tratta esclusivamente della disponibilità di fondi, pubblici e privati, ma della loro distribuzione nel territorio. Gli sforzi per ricostruire la credibilità e i risultati degli istituti dell'Est sono stati costanti e notevoli. Su tutti è utile ricordare l'apertura di nuove sedi dei Max Planck Institute verso Est.

Dopo la riunificazione, seguita al mitico crollo del muro di Berlino, in venti anni la Germania è riuscita a fare con il suo "Sud" (leggi "Est") quel che in Italia aspettiamo dal 1861. È, infatti, in questa chiave che si possono interpretare i recenti "successi" economici e commerciali delle imprese tedesche. Il supporto di attività di ricerca scientifica di altissimo livello produce (a) lavoratori altamente qualificati, (b) manager e direttori che sperimentano nuove tecniche di gestione e capiscono l'importanza di essere "all'avanguardia", (c) una maggiore comprensione, da parte della popolazione in generale e della classe politica in particolare, delle sfide che si presentano sui diversi piani delle dinamiche internazionali, (d) un significativo senso di responsabilità da parte della classe politica nei confronti dei cittadini e di altri "stakeholder" (vedi sotto), collocati al di fuori dei confini dello Stato, ma non meno importanti, (e) la possibilità che imprese possano nascere dai cosiddetti spin-off, ovvero da studenti universitari che trovano supporto istituzionale e fondi privati che favoriscono particolari idee di impresa, (f) molto altro.

Se tutto questo può essere ricondotto agli investimenti in ricerca e sviluppo, come mai--ci si potrebbe domandare--l'Italia non segue l'esempio tedesco (che poi è anche quello degli USA) e investe nella ricerca in modo da garantire una maggiore prosperità in futuro? La risposta sembra essere semplice. Se quanto elencato sopra può essere associato ad un forte finanzaimento della ricerca, cosa è associato ad una mancanza di fondi per la ricerca?

La scarsità di risultati scientifici è solitamente legato a: (1) nanismo imprenditoriale e scarsa attitudine al rischio, (2) più alti livelli di corruzione e disparità tra i sessi, dovuti alla mancanza di educazione al senso della "cosa comune" e alla comprensione di quanto la diversità sia ricca, (3) scarso senso di responsabilità per le proprie azioni, derivante dal mancato esercizio intellettuale di pensare e riflettere attentamente alle conseguenze delle decisioni (fondamento di molti corsi universitari), (4) limitati o assenti supporti alle attività di spin-off, (5) mancanza di una classe politica che si faccia portatrice di interessi che non siano auto-referenziali ma che si ispirino ad un senso etico condiviso dalla maggioranza dei cittadini, (6) lavoratori scarsamente qualificati che si battono, ad armi impari, contro Cina, Brasile, India, invece di costituire un'altrernativa a USA, Germania, Francia. Ci sarebbe dell'altro ma un corollario di quanto scrivo è costituito dalla facilità con cui i poveri di mente (spero non di spirito!) sono influenzabili da potere, minacce, autorità.

Uno dei punti fondamentali è capire l'importanza del concetto di stakeholder. Si tratta di considerare gruppi e individui che influenzano e sono influenzati da coloro i quali prendono le decisioni. È in questo quadro che la decisione della Germania (e dell'Unione) di sostenere la Grecia può essere compresa. Quali sono gli interessi "altri" del paese? Una volta comprese le interconnessioni economico-finanziarie attuali, un passaggio decisamente rilevante è quello di avere degli interlocutori--i cittadini--che possano apprezzare la portata della decisione. Gli stessi motivi che spiegano la modernità della decisione tedesca possono aiutare a comprendere quanto sia difficile che le stesse logiche sii applichino al caso italiano.

In sintesi, l'ignoranza è fondamentale. Infatti consente ad una classe politica scadente di continuare ad esercitare una significativa influenza su cittadini che non hanno gli strumenti intellettuali per distinguere tra la coerenza di un buon argomento dalla logica fallace di uno scadente.

L'unica difesa contro i soprusi è e rimane la conoscenza, la ricerca, l'università.

Monday, October 18, 2010

I morti dell'Afghanistan

Sabato 9 Ottobre, il sito web di Repubblica titola “Farah, strage di italiani: morti 4 soldati”, quello de Il Fatto e quello de La Stampa aprono con “Afghanistan, strage di italiani”, il corriere.it “Afghanistan, quattro alpini uccisi”, sulla home de Il Sole-24 Ore si legge “Quattro militari italiani uccisi e uno ferito in Afghanistan”. Sono andato anche sul sito de La Padania (che peraltro ha un dominio “.org”, come se fosse il sito di un’associazione) ma nulla appare in prima pagina.
Ho dato uno sguardo alle foto dei quattro ragazzi pubblicate in tutti i siti. I loro volti, uno in particolare, sono molto simili a quelli dei miei ex-studenti di Varese. Ho immediatamente letto i nomi ma non ho riconosciuto nessuno. A parte i legami e le emozioni personali, quando dei ragazzi perdono la vita in guerra (o in qualunque altra circostanza), si tratta sempre di un evento drammatico e tragico. Quest’ultimo può offrire alcuni spunti di riflessione sulla guerra in generale, sulla missione italiana in Afghanistan, sulla strategia politico-militare, sulle relazioni internazionali e molto altro. Tutti temi importanti e legittimi. Tuttavia, non sono interessato a discutere di questo ma di quanto pesi il fatto che i morti siano “italiani”.
I nostri giornalisti sono sempre pronti ai titoli ad effetto quando i morti sono italiani. Lo sono meno quando a morire sono americani, inglesi, civili e “terroristi” afgani o di altra nazionalità. Perché si attribuiscono pesi diversi a nazionalità diverse? Perché sottolineare che i morti sono italiani? Come mai i giornali non affrontano la morte in Afghanistan (in questo caso) nello stesso modo a prescindere dalla nazionalità? Interessa davvero sottolineare la provenienza culturale-geografica dei giovani morti? Non è forse tragica in quanto tale la morte di un giovane? 
In guerra si muore. Quando il governo decide di entrare in guerra, ci sono sempre almeno due constatazioni: (a) il fallimento della diplomazia (e/o degli organismi internazionali preposti allo stabilire o ristabilire condizioni di pace) e (b) l’accettare che qualcuno (spesso giovani) si sacrifichi per la causa. Ciononostante, quando la notizia della morte arriva è sempre un dramma. 
Il mio invito è quello di pensare più profondamente alla guerra e alle sue implicazioni. Una morte è sempre tragica, a prescindere dalla nazionalità. Sono i morti italiani più “vicini” di quelli afgani o americani? Non conoscendo i primi, né i secondi o i terzi (come la maggioranza delle persone), ritengo che non si possano fare distinzioni. 
Pertanto, cari giornali e giornalisti, sparate i vostri titoloni di continuo a prescindere dal bieco nazionalismo che continua ad esservi di ispirazione. Ecco un suggerimento: “Anche oggi la morte non abbandona l’Afghanistan”. Magari, a furia di sottolineare che in guerra si muore, qualcuno potrebbe persino ricordarsi di quanto scriveva Einaudi sul Corriere (1917-19) o di aver letto “Un anno sull’altipiano” di Lussu. Ma questo implicherebbe che si tornasse a parlare di questioni futili come, per esempio, quanto la guerra forzi i singoli a pensare diverso ciò che non lo è e come il problema dei conflitti internazionali possa essere affrontato con soluzioni stabili, non ad hoc come quelle attuali. Farneticazioni.

Sunday, October 3, 2010

L’effetto B sull’economia nazionale (II parte)

Eccomi qua a continuare quanto iniziato nel post precedente. Oggi cercherò di completare il quadro scrivendo degli effetti delle politiche economiche del governo di Mr B su (c) debito pubblico; (d) import/export, e (e) disoccupazione. Salvo non sia diversamente indicato, i dati sono quelli di Eurostat.
Il debito pubblico. Come ogni cittadino/a europeo/a ha imparato a conoscere, il limite per il debito pubblico di un paese che faccia parte dell’area Euro è il 60%. L’Italia ha un debito pubblico doppio rispetto a quel parametro. Cosa significa? Beh, a parte i problemi di stabilità per l’intera area, il dato mostra come le finanze pubbliche non abbiano saputo (nei ultimi quattro decenni) amministrare coscienziosamente le risorse a disposizione, spendendo più di quanto non avessero a disposizione. La riduzione della esposizione debitoria è fondamentale per lo Stato così come lo è per i singoli individui. Vorremo capire se e come Mr B abbia aiutato il debito a ridursi, al contrario, abbia contribuito ad una sua ulteriore crescita. Nel Supplemento al Bollettino Statistico No 44 del 2010, la Banca d’Italia pubblica il trend per il nostro paese. Il 2009 ha fatto registrare un +8.5% del debito rispetto al 2008; il dato è 115.8%, misurato come percentuale sul PIL. La variazione 2007-2008 è sempre positiva con un 2.5% circa. Si tratta di un trend comune a tutti i governi? Certo che no. Il governo di Mr P era riuscito a limitare la crescita del debito nel 2006 (+0.6%) e a ridurlo nel 2007 (–2.82%). Nel primo quinquennio, anche Mr B è riuscito, in media, a ridurre il debito di –0.62 punti percentuali sul PIL ma ha lavorato per incrementarlo. Nel 2001 e 2002 infatti l’Italia ha registrato un decremento, diventato poi un incremento del debito nel 2005. Il governo di Mr P degli anni pre-2000 aveva portato il debito a perdere circa il 2.5% ogni anno (con il 2000 anno record: –3.96%). Una buona abitudine abbandonata da Mr B. Volendo fare la media dei vari mandati, Mr B costa all’Italia una crescita del debito annuale di circa 1.2%. I governi di Mr P hanno invece lavorato nel senso opposto (–2.0%).
Import-Export. In molti pensano all’Italia come ad un paese che esporta i propri prodotti. I dati del World Trade Organization (2008) mostrano che il paese ha un deficit nella bilancia commerciale, vale a dire importa beni e servizi più che esportarli. Sia per quanto riguarda il commercio di beni (Import: $504.5 miliardi; export: $491.5 miliardi) che per quanto concerne quello dei servizi (Import: $118.3 miliardi; export: $110.5 miliardi), l’Italia ha invertito il proprio ruolo nel commercio internazionale. Il trend risulta stabile nell’ultimo decennio. E tuttavia, posto che (i) 8 anni su 10 hanno visto Mr B alla ribalta e che (ii) i dati pre-2000 mostravano numeri differenti, si potrebbe forse iniziare a parlare di responsabilità o, comunque, di carenza di supporto governativo alle esportazioni.
Disoccupazione. Il trend della disoccupazione in Italia mostra un calo ogni anno a partire dal 1997 (11.3%) al 2007 (6.1). Il dato per il 2009 è 7.8%—la mia fonte è Eurostat. Questo è un dato positivo e tuttavia molto discusso perché in molti sostengono che ci siano elementi che il numero “medio” non riesce a catturare. Mentre la distribuzione della disoccupazione per età e quella per titolo di studio è sempre stata una delle piaghe del paese, uno sguardo alla sua dispersione geografica è un dato sul quale ci si potrebbe soffermare. Il dato si avvicina allo zero quando la disoccupazione è simile in tutte le regioni; il dato per l’Italia è 16.3 (2007) ed è rimasto più o meno costante fin dal 1999 (17.4). In Francia lo stesso indice si attesta a 6.6 e in Germania è uguale a 4.8 (nel 2007). Non pare che ci sia la volontà, da parte dei governi succedutisi, di ridurre questa disparità che caratterizza il paese. Sicuramente il governo di Mr B non si è distino da chi lo ha preceduto.
Penso che il quadro che ho appena dipinto abbia tinte piuttosto fosche. Cosa ha portato Mr B all’economia del paese? Quali sono stati i vantaggi economici? In che modo la gestione aziendale di Mr B ha aiutato il paese a migliorare la propria collocazione internazionale?
Lascio ciascuno di voi rispondere a queste domande. Di sicuro, i dati mostrano che il paese è più povero, le disparità economico-sociali sembrano aumentate, il divario Nord-Sud cresce anziché diminuire, il debito pubblico cresce e il sistema delle imprese italiane ha perso il loro ruolo sullo scenario internazionale. E’ questo il suo miracolo? Grazie, Mr B.

L’effetto B sull’economia nazionale: 2001-2006, 2008-oggi

Molto di quanto si scrive sul governo di Mr B ha a che vedere con leggi ad personam, processi, dichiarazioni poco accorte di Mr B, ministri e sottosegretari, con la distruzione del poco che rimane della Costituzione repubblicana, con il neo-razzismo della Lega Nord e con molto altro. Pochi si soffermano sui dati economici, che poi sono quelli che determinano il benessere o malessere dei cittadini. Degli ultimi 10 anni, circa 8 sono stati governati dalla destra di Mr B. Penso siano sufficienti per fare un primo bilancio delle politiche di Mr B e per iniziare ad attribuire qualche responsabilità.
Non è mia intenzione quella di scrivere un rapporto in stile Banca d’Italia ma trattare pochi indicatori solamente: (a) prodotto interno lordo (PIL) e relativo tasso di crescita; (b) PIL pro-capite; (c) debito pubblico; (d) import/export, e (e) disoccupazione. Salvo non sia diversamente indicato, i dati sono quelli della Banca Centrale Europea. In questo post tratto solo (a) e (b) per ragioni di spazio.
Il prodotto interno lordo. Il PIL misura la ricchezza di un paese pertanto, si tratta del dato principe per economisti e politici (nonostante siano significative le critiche su cosa sia effettivamente rappresentato dal dato). Nel 2009 il PIL italiano si attesta a € 1,520.9 miliardi (mld). Cosa significa questo numero? Il modo più semplice per capire è quello di fare qualche comparazione. L’Italia pesa per il 17% sull’area dell’Euro, rispetto al 21% della Francia, 26.7% della Germania e 11.8% della Spagna. In termini di peso economico, si tratta di uno dei paesi più avanzati d’Europa e del mondo. Tuttavia, quale era il peso dell’Italia sull’area euro agli inizi del decennio, quando cioè si costituiva la moneta unica? Il peso non ha avuto significative modifiche, attestandosi al 18% agli inizi del decennio; Francia e Spagna hanno guadagnato posizioni e la Germania ha perso circa il 5%. Ma quale è il tasso di crescita del PIL italiano? Quando l’Ulivo ha governato (1996-2000), il tasso di crescita del PIL era di 1.9%. Vediamo Mr B: 0.9% in media dal 2001 al 2005, -1.3% e -5.1% nel 2008 e nel 2009 rispettivamente. Sembra una barzelletta ma il 2007, anno in cui Mr P ha governato, la crescita del PIL è stata del 1.4%. Crisi o non crisi, non sembra che i governi di Mr B abbiano accresciuto la ricchezza totale dei cittadini italiani.
Il PIL pro-capite. Il secondo fattore che intendo considerare è strettamente legato al primo: si tratta del PIL pro-capite, ovvero la ricchezza che, in media, ogni cittadino italiano dovrebbe, in media, ritrovarsi in tasca. Nel 2009 l’Italia ha registrato un dato pari a € 25,240, in calo rispetto al 2008 (€ 26,200). Anche in questo caso, sono le comparazioni che danno un senso al dato—anche se un calo, bisogna dire, è già di per se un segnale negativo e sta ad indicare che il reddito a disposizione di ciascuno è diminuito. Molti paesi hanno registrato un calo nel 2009 e tuttavia Francia e Germania rimangono su livelli molto più alti rispetto all’Italia. Il PIL pro-capite in questi due paesi è rispettivamente € 29,570 e € 29,280. Detto questo, ciò che sorprende maggiormente è che l’Italia, la terza economia dell’area Euro, abbia un PIL pro-capite inferiore alla media, contrariamente a Francia e Germania, #2 e #1. Durante l’intermezzo del governo di Mr P il dato ha sempre fatto registrare una crescita: € 26,040 nel 2007, +3% rispetto al 2006. In media, il governo di Mr B del primo quinquennio degli anni 2000 ha registrato un incremento del 3.2% della ricchezza. Non male, si potrebbe pensare. E tuttavia quel dato è la metà di quanto il governo di Mr P aveva ottenuto nel quinquennio precedente: ~6.8%. 
Questo del PIL pro-capite è un dato molto scarno perché le condizioni reali sono talvolta parecchio distanti dalla media. Mi spiego meglio. Ciò che conta non è solo la ricchezza media ma anche la sua distribuzione. Un paese con un PIL pro-capite molto elevato (come l’Arabia Saudita, per esempio) potrebbe avere una concentrazione di poche persone enormemente ricche, che tirano su il dato, e molte altre enormemente povere. Per calcolare la distribuzione della ricchezza esiste un coefficiente statistico, il celeberrimo (per gli addetti ai lavori) indice di Gini. Questo dato viene calcolato dalle Nazioni Unite (UNDP) e l’Italia ha un coefficiente pari a 36 (1992-2007). La distanza che ci separa dallo 0 (completa uguaglianza nella distribuzione della ricchezza) non sembra molto significativa se si pensa che il limite superiore è 100. Tuttavia, i primi paesi della lista hanno valori pari a 24.7 (#1 Danimarca), 24.9 (#2 Giappone), e 25 (#3 Svezia). Zimbabwe, Nigeria e Gambia si attestano a 50, per fare un altro esempio. 
Senza volermi dilungare oltre, anche in questo caso ciò che conta è l’operato di Mr B. Purtroppo sono riuscito a trovare i dati relativi al 1996-2006 solamente (http://www.eurofound.europa.eu/). Il governo precedente (Mr P) aveva portato l’indice al 29 (2001) dal 32, dato del 1996. Mr B ha portato l’indice al valore di 33 nel 2005. Insomma, con le politiche di Mr B aumenta il divario economico tra ricchi e poveri nel nostro paese. Quelli che stavano meglio, stanno sempre meglio, quelli che stavano peggio…

Sunday, September 19, 2010

1. Scienziati extra-comunitari

Una delle questioni che animano il dibattito italiano, discussa con ciclicità dai più, riguarda il numero di stranieri nelle squadre di calcio. Si parla di giocatori con passaporto diverso da quello italiano, categorizzati in europei ed extra-comunitari. Mi ha sempre impressionato la mole di argomentazioni portate avanti da quelli che si ritengono contrari alla “barbarizzazione” del calcio italiano, come se si trattasse di una contaminazione, una malattia da estirpare, un male da limitare. In realtà, come spesso dimostrato dalle migliori squadre di calcio europee, raramente la eterogeneità della squadra porta scarsi risultati. Al contrario, questo sistema funziona così bene che stiamo imparando che anche gli allenatori possono essere stranieri!
Non sono un grande conoscitore di calcio (per quello c’è mio padre) e per questo non ho altro da aggiungere su questo punto. Vorrei però traslare il discorso sulle università. Mi sono sempre chiesto come mai nessuno abbia mai pensato di ripetere il “modello calcistico” nei nostri atenei. Non che all’estero non ci siano modelli simili. Al contrario, i migliori atenei stranieri hanno un mix di cervelli provenienti da tutto il mondo. La possibilità di selezionare e assumere ricercatori e professori attingendo da un bacino che sia il più ampio possibile costituisce un punto di forza notevole delle università americane e della maggior parte di quelle europee. Il mercato della conoscenza e della ricerca è un altro esempio, l’ennesimo, di mercato globale. Limitare la possibilità di assunzione solo a coloro i quali conoscono la lingua italiana e la sanno utilizzare correttamente equivale, in scala nazionale, alla proposta di avere insegnanti lombardi nelle scuole lombarde, campani in quelle campane, e così via. Assurdo, no?
La diversità è un valore che andrebbe incentivato e protetto. Perché limitare l’accesso dell’eccellenza negli atenei? Per quale motivo un posto da docente universitario non può essere offerto al più qualificato a prescindere dalla nazionalità?
Il numero di docenti universitari non italiani negli atenei italiani è davvero ridicolo. Se si escludono gli istituti di lingue che, per conformazione e struttura, devono avere docenti e lettori madrelingua, resta davvero poco. Inoltre, se non sbaglio, la legislazione italiana per i concorsi del personale docente di fatto esclude che un non-italiano o una non-italiana possa partecipare. Come conseguenza, non ho mai letto di un’università italiana che pubblichi i propri annunci di assunzione (bandi di concorso) sui siti delle associazioni professionali dei docenti universitari (unica eccezione: Bocconi). 
Ma, al di là del mito delle squadre di calcio e delle migliori università al mondo, quali sarebbero i vantaggi di avere docenti stranieri nelle università italiane? Limito l’attenzione a un paio (alla sarda) di punti solamente.
  • La selezione e l’assunzione di candidati non-italiani implica che la valutazione delle qualità sia fatta sulla base di criteri oggettivi quali il curriculum dei candidati e la qualità generale delle domande pervenute. Questo, a sua volta, impatta sulle clientele/parentele in maniera negativa. Due condizioni affinché questo si verifichi: (1) i criteri di valutazione devono essere stilati (dalla commissione) prima di effettuare la selezione e sottomessi all’esame di un organismo terzo indipendente che ne valuti plausibilità, correttezza ed efficacia; (2) un organismo terzo indipendente rispetto alla commissione dovrebbe anche valutare che il pool di candidati sia sufficientemente diverso (in termini di genere, provenienza, etnia, età, etc.).
  • Qualora la selezione dei docenti universitari fosse portata avanti senza confini nazionali, uno dei risultati più immediati sarebbe quello di un incremento della qualità nella produzione scientifica. Questo punto è semplice da comprendere e si basa sul fatto che quando la selezione dei docenti è fatta sulla base di criteri quali l’attitudine a pubblicare, il potenziale dei filoni di ricerca del candidato e la qualità della didattica si aumentano le chance che il docente sia “produttivo” e ricopra un ruolo da intellettuale attivo nell’ateneo che lo ha assunto. Da una migliore produttività scientifica deriva una migliore qualità dell’insegnamento (almeno dei contenuti se non anche delle tecniche).
  • Da non sottovalutare sarebbe il messaggio di tolleranza e integrazione che l'università darebbe in un sistema sociale deteriorato quale quello italiano. Il mondo della ricerca e della università ritornerebbe, con i fatti, a dimostrare che la cultura e la conoscenza costituiscono strumento importantissimo per superare i pregiudizi e il razzismo.
  • Avete idea di come sia un ambiente di lavoro multinazionale? Io non ne avevo idea prima di raggiungere la University of Wisconsin, qui negli Stati Uniti d’America. Oggi reputo questo aspetto uno di quelli indispensabili per chi si appresti a percorrere la carriera accademica. La diversità stimola la creatività, costringe quotidianamente a non dare nulla per scontato, è un terreno di confronto costruttivo continuo. E, alla fine, si impara ogni giorno qualcosa di prezioso. Non è forse questo che ogni accademico sogna?

In sintesi, le università italiane sono, oggi, luoghi di discriminazione nei confronti di tutti coloro che non hanno la nazionalità italiana e tuttavia possiedono i titoli per poter fare ricerca e insegnare come e (troppo spesso) meglio dei docenti attuali. Il problema non è “far rientrare i cervelli.” Chi è scappato spesso non ha alcuna intenzione di rientrare. Il punto è invece quello di aprire le università a quei cervelli che sono in fuga da altre nazioni. Attirare bravi ricercatori dovrebbe essere l’obiettivo, non ripescare quelli italiani che stanno all’estero. Ancora una volta ripeto: il principio di non discriminazione dovrebbe valere in generale, dunque anche per la ricerca e l’accademia.

Università italiana: possibile rianimare un morto?

Recentemente ho assistito ad una assemblea pubblica di tutti i consigli di facoltà di un ateneo italiano. Una mossa orientata a dare pubblicità al dissenso di tutti rispetto alla più recente riforma Gelmini. Un fiume di interventi e una dichiarazione finale, letta da un rappresentante dei consigli riuniti. Confuso, mi sono allontanato con più dubbi che altro. Che l’ennesima riforma propinata dall’ennesimo ministro sia un obbrobrio o un pasticcio, per me, non era affatto in discussione. Mi aspettavo che gli interventi-fiume rivelassero una proposta alternativa alla riforma o presentassero una qualche analisi sullo stato del sistema universitario. Invece, non ho assistito a nulla di tutto ciò. Ho avuto l’impressione che tutti—docenti, personale amministrativo e studenti—fossero vittime della cosiddetta status quo bias, un fenomeno molto noto tra gli studiosi di comportamento organizzativo (traduzione assurda per “organizational behavior”). Si tratta di quel particolare pregiudizio che ci fa spesso sostenere (anche a torto) che quel che è in essere, ciò che conosciamo, è meglio di qualunque sua modifica. Si tratta, per usare un esempio banale, del fatto che, davanti alla scelta tra involtini-primavera e involtini-qualcos’altro, al ristorante cinese preferiamo i “primavera” semplicemente perché sappiamo di cosa si tratta. Se volete, si tratta di pigrizia mentale. Ma non è solo questo. E’ una potente limitazione cognitiva che opera a nostra insaputa e non ci consente di valutare appieno le alternative in campo.
Scrivo questo non a sostegno della riforma, sia chiaro. Sono tuttavia sconcertato da quanto ho assistito quella sera (non diverso da quanto si legge in genere sui quotidiani e sul web, purtroppo). La classe docente italiana—che espressione!—e’ parte del sistema che critica. Mi spiego meglio. Invece di essere promotrice di innovazione, sviluppo, ricerca, dinamismo, creatività, critica, la ritroviamo avvocato e vittima dello status quo. Per quale motivo? Cosa ne è degli intellettuali e dell’intellighenzia italiana? Perché professori e ricercatori universitari non sono in grado di applicare la conoscenza di cui dovrebbero essere portatori e distributori? L’impresa scientifica italiana è morta?
Il modo migliore per cercare una risposta penso sia quello di ragionare su alcuni punti rispetto ai quali le università italiane mostrano delle carenze al limite della incolmabilità (il rigor mortis è apparente!). In particolare, prima di soffermarsi sulla riforma, sarebbe necessario interrogarsi su alcuni mali strutturali, quali ad esempio:
  • la internazionalizzazione del corpo docente; i ricercatori e professori che operano in Italia sono quasi tutti italiani. Questo indica che le università non sono preoccupate di selezionare “il meglio” ma, al limite, il meglio è limitato a chi ha cittadinanza italiana. Purtroppo, neanche questa seconda ipotesi (meglio della italianità) si avvicina alla realtà;
  • il baronato; i centri di ricerca e le università italiane sono note per i cosiddetti “baroni”, individui che dettano legge ed esercitano poteri pressoché assoluti su tutta una cerchia di “vassalli” e “schiavi.” Non solo questo modo di procedere sembra poco efficiente e improduttivo ma, soprattutto, è immorale;
  • i fondi; il generale stato di povertà della ricerca in Italia non consente a docenti e studenti di intraprendere progetti di ricerca che siano competitivi a livello internazionale. Il punto di partenza potrebbe essere quello di discutere dei salari dei docenti universitari e delle relative loro mansioni. La distanza che separa il mondo della ricerca italiana dal resto del mondo è tale da catalogare il paese come terzo mondo;
  • il collegamento con l’esterno; la famosa torre d’avorio nella quale si rinchiuderebbero i ricercatori non esiste, almeno in Italia. I docenti sono spesso attivi nella società civile e molti svolgono ruoli istituzionali in rilevanti settori dell’economia. Il problema, in questo caso, è quello delle conoscenze di cui i docenti si fanno portatori, spesso antiquate e irrilevanti.

Questi sono i punti che mi piacerebbe sviluppare in successivi post. Appare chiaro che non pretendo di presentare nessuna soluzione al caso quasi-disperato della ricerca in Italia. Tuttavia, per fare una diagnosi occorre confrontare opinioni. Queste sono le mie.

First Post

This is the first post on my new blog.

It is my intention to write both in English and Italian. I mean, it is not my intention to write the same post twice; just to address different topics in different languages, depending on what potential audience is more likely to read.

Personal information on my academic work can be found in academia.edu or simply google-ing my first and name.

Best,
Davide