Recentemente ho assistito ad una assemblea pubblica di tutti i consigli di facoltà di un ateneo italiano. Una mossa orientata a dare pubblicità al dissenso di tutti rispetto alla più recente riforma Gelmini. Un fiume di interventi e una dichiarazione finale, letta da un rappresentante dei consigli riuniti. Confuso, mi sono allontanato con più dubbi che altro. Che l’ennesima riforma propinata dall’ennesimo ministro sia un obbrobrio o un pasticcio, per me, non era affatto in discussione. Mi aspettavo che gli interventi-fiume rivelassero una proposta alternativa alla riforma o presentassero una qualche analisi sullo stato del sistema universitario. Invece, non ho assistito a nulla di tutto ciò. Ho avuto l’impressione che tutti—docenti, personale amministrativo e studenti—fossero vittime della cosiddetta status quo bias, un fenomeno molto noto tra gli studiosi di comportamento organizzativo (traduzione assurda per “organizational behavior”). Si tratta di quel particolare pregiudizio che ci fa spesso sostenere (anche a torto) che quel che è in essere, ciò che conosciamo, è meglio di qualunque sua modifica. Si tratta, per usare un esempio banale, del fatto che, davanti alla scelta tra involtini-primavera e involtini-qualcos’altro, al ristorante cinese preferiamo i “primavera” semplicemente perché sappiamo di cosa si tratta. Se volete, si tratta di pigrizia mentale. Ma non è solo questo. E’ una potente limitazione cognitiva che opera a nostra insaputa e non ci consente di valutare appieno le alternative in campo.
Scrivo questo non a sostegno della riforma, sia chiaro. Sono tuttavia sconcertato da quanto ho assistito quella sera (non diverso da quanto si legge in genere sui quotidiani e sul web, purtroppo). La classe docente italiana—che espressione!—e’ parte del sistema che critica. Mi spiego meglio. Invece di essere promotrice di innovazione, sviluppo, ricerca, dinamismo, creatività, critica, la ritroviamo avvocato e vittima dello status quo. Per quale motivo? Cosa ne è degli intellettuali e dell’intellighenzia italiana? Perché professori e ricercatori universitari non sono in grado di applicare la conoscenza di cui dovrebbero essere portatori e distributori? L’impresa scientifica italiana è morta?
Il modo migliore per cercare una risposta penso sia quello di ragionare su alcuni punti rispetto ai quali le università italiane mostrano delle carenze al limite della incolmabilità (il rigor mortis è apparente!). In particolare, prima di soffermarsi sulla riforma, sarebbe necessario interrogarsi su alcuni mali strutturali, quali ad esempio:
- la internazionalizzazione del corpo docente; i ricercatori e professori che operano in Italia sono quasi tutti italiani. Questo indica che le università non sono preoccupate di selezionare “il meglio” ma, al limite, il meglio è limitato a chi ha cittadinanza italiana. Purtroppo, neanche questa seconda ipotesi (meglio della italianità) si avvicina alla realtà;
- il baronato; i centri di ricerca e le università italiane sono note per i cosiddetti “baroni”, individui che dettano legge ed esercitano poteri pressoché assoluti su tutta una cerchia di “vassalli” e “schiavi.” Non solo questo modo di procedere sembra poco efficiente e improduttivo ma, soprattutto, è immorale;
- i fondi; il generale stato di povertà della ricerca in Italia non consente a docenti e studenti di intraprendere progetti di ricerca che siano competitivi a livello internazionale. Il punto di partenza potrebbe essere quello di discutere dei salari dei docenti universitari e delle relative loro mansioni. La distanza che separa il mondo della ricerca italiana dal resto del mondo è tale da catalogare il paese come terzo mondo;
- il collegamento con l’esterno; la famosa torre d’avorio nella quale si rinchiuderebbero i ricercatori non esiste, almeno in Italia. I docenti sono spesso attivi nella società civile e molti svolgono ruoli istituzionali in rilevanti settori dell’economia. Il problema, in questo caso, è quello delle conoscenze di cui i docenti si fanno portatori, spesso antiquate e irrilevanti.
Questi sono i punti che mi piacerebbe sviluppare in successivi post. Appare chiaro che non pretendo di presentare nessuna soluzione al caso quasi-disperato della ricerca in Italia. Tuttavia, per fare una diagnosi occorre confrontare opinioni. Queste sono le mie.
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