Monday, October 18, 2010

I morti dell'Afghanistan

Sabato 9 Ottobre, il sito web di Repubblica titola “Farah, strage di italiani: morti 4 soldati”, quello de Il Fatto e quello de La Stampa aprono con “Afghanistan, strage di italiani”, il corriere.it “Afghanistan, quattro alpini uccisi”, sulla home de Il Sole-24 Ore si legge “Quattro militari italiani uccisi e uno ferito in Afghanistan”. Sono andato anche sul sito de La Padania (che peraltro ha un dominio “.org”, come se fosse il sito di un’associazione) ma nulla appare in prima pagina.
Ho dato uno sguardo alle foto dei quattro ragazzi pubblicate in tutti i siti. I loro volti, uno in particolare, sono molto simili a quelli dei miei ex-studenti di Varese. Ho immediatamente letto i nomi ma non ho riconosciuto nessuno. A parte i legami e le emozioni personali, quando dei ragazzi perdono la vita in guerra (o in qualunque altra circostanza), si tratta sempre di un evento drammatico e tragico. Quest’ultimo può offrire alcuni spunti di riflessione sulla guerra in generale, sulla missione italiana in Afghanistan, sulla strategia politico-militare, sulle relazioni internazionali e molto altro. Tutti temi importanti e legittimi. Tuttavia, non sono interessato a discutere di questo ma di quanto pesi il fatto che i morti siano “italiani”.
I nostri giornalisti sono sempre pronti ai titoli ad effetto quando i morti sono italiani. Lo sono meno quando a morire sono americani, inglesi, civili e “terroristi” afgani o di altra nazionalità. Perché si attribuiscono pesi diversi a nazionalità diverse? Perché sottolineare che i morti sono italiani? Come mai i giornali non affrontano la morte in Afghanistan (in questo caso) nello stesso modo a prescindere dalla nazionalità? Interessa davvero sottolineare la provenienza culturale-geografica dei giovani morti? Non è forse tragica in quanto tale la morte di un giovane? 
In guerra si muore. Quando il governo decide di entrare in guerra, ci sono sempre almeno due constatazioni: (a) il fallimento della diplomazia (e/o degli organismi internazionali preposti allo stabilire o ristabilire condizioni di pace) e (b) l’accettare che qualcuno (spesso giovani) si sacrifichi per la causa. Ciononostante, quando la notizia della morte arriva è sempre un dramma. 
Il mio invito è quello di pensare più profondamente alla guerra e alle sue implicazioni. Una morte è sempre tragica, a prescindere dalla nazionalità. Sono i morti italiani più “vicini” di quelli afgani o americani? Non conoscendo i primi, né i secondi o i terzi (come la maggioranza delle persone), ritengo che non si possano fare distinzioni. 
Pertanto, cari giornali e giornalisti, sparate i vostri titoloni di continuo a prescindere dal bieco nazionalismo che continua ad esservi di ispirazione. Ecco un suggerimento: “Anche oggi la morte non abbandona l’Afghanistan”. Magari, a furia di sottolineare che in guerra si muore, qualcuno potrebbe persino ricordarsi di quanto scriveva Einaudi sul Corriere (1917-19) o di aver letto “Un anno sull’altipiano” di Lussu. Ma questo implicherebbe che si tornasse a parlare di questioni futili come, per esempio, quanto la guerra forzi i singoli a pensare diverso ciò che non lo è e come il problema dei conflitti internazionali possa essere affrontato con soluzioni stabili, non ad hoc come quelle attuali. Farneticazioni.

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