Saturday, October 30, 2010

Nascondersi dietro un dito

Oggi, come tutte le mattine, ho aperto la email e il server ha iniziato a scaricare la posta. Fortunatamente, l'università per la quale lavoro ha un filtro anti-spam che funziona particolarmente bene così che non ricevo email di pubblicità inutili. Da quando ho pubblicato, insieme ad Emanuele Bardone, il libro Uniti e diversi sotto il patrocinio  della Fondazione Italia-USA, ricevo delle comunicazioni da parte di questa organizzazione su eventi, novità e altro. La email ricevuta questa mattina mi ha lasciato “di stucco”, scriverebbe mio Nonno. L’inizio mi aveva incuriosito:
“Indipendentemente dalla coloritura politica (sia il centrosinistra che il centrodestra sono stati penalizzati in questo senso dalla profonda immaturità culturale e politica del palazzo) l'indicazione degli elettori è sempre apparsa come un qualcosa di ininfluente e secondario”.
A scrivere è Mr Ghirlanda, parlamentare italiano (che ha perso una virgola prima di “l’indicazione”) e presidente della Fondazione Italia-USA. Il pezzo dal titolo “L’indicazione degli elettori? Ininfluente e secondaria” è apparto online, nel sito http://www.affaritaliani.it/politica/sistema_elettorale291010.html. L’occasione è quella di paragonare alcuni aspetti del sistema italiano a quello degli Stati Uniti.
Dalla frase riportata sopra non appare, tuttavia, chiaramente quali siano i contenuti del pezzo. A cosa ci si riferisce con le parole “indicazione degli elettori”? Si tratta del voto, ovviamente. La immaturità politica e culturale di cui sopra è da riferire al fatto che gli uomini politici non rispettano il mandato degli elettori, rendendo il voto (indicazione) ininfluente e secondario. Ora, a che proposito si scrive questo? Ecco cosa scrive Mr Ghirlanda:
“Un'anomalia tutta italiana, questa che non si limita alla legittimazione del primo ministro, ma coinvolge ormai significative componenti dello stesso Parlamento al di là degli schieramenti. Anche qui dimostrando una totale immaturità politico-culturale che porta il nostro Paese sempre più lontano dalle consolidate democrazie non solo anglosassoni, ma occidentali in generale. Qualcuno ha mai visto gruppi di decine di parlamentari eletti in uno schieramento del Bundestag tedesco o della Camera dei Comuni inglese passare in massa, ad esempio, dallo schieramento laburista a quello conservatore? O addirittura creare nuovi partitini abbandonando lo schieramento che ha garantito loro il seggio?”
La risposta è no, nella norma il “salto della quaglia” è un fenomeno nostrano. E tuttavia, abbiamo assistito molte volte a questi eventi, sia nel corso della prima che della seconda repubblica. Un altro passaggio dell’articolo può essere d’aiuto:
“[N]essun membro della Camera dei Rappresentanti o del Senato degli Stati Uniti si è sognato di cambiare casacca, consapevole che tale comportamento avrebbe segnato la sua fine politica, attraendo verso di sé il disprezzo dei suoi elettori e dell'opinione pubblica più in generale.”
Dunque, Mr Ghirlanda è giustamente preoccupato da quanto accade nel parlamento italiano e dal fatto che alcuni parlamentari possano cambiare schieramento o la propria “lealtà” nei confronti del governo. Come mai questo può avvenire in Italia?
Due considerazioni. La prima è che la classe politica rappresenta i cittadini. Intendo con questo affermare che la classe politica è specchio della società e cultura italiana. Il fatto che il “salto” non sia punito dagli elettori alla successiva tornata elettorale, fa cadere l’ipotesi che l'immaturità sia da imputare a politici e classe politica in generale. Il voto è, in ultima istanza, il meccanismo di controllo e “punizione” del cambio di casacca dei parlamentari e dei giochi cosiddetti “di palazzo”. Tuttavia, la punizione non si è mai verificata, se non nel brevissimo termine e con effetti trascurabili. Il Parlamento italiano è infatti popolato, per quanto riguarda i “notabili” di ciascuno degli schieramenti, dagli stessi individui da circa vent’anni. Il punto diventa: sono i cittadini che dovrebbero educare i politici o viceversa? Ha senso parlare di educazione o maturità in questo caso?
La seconda considerazione riguarda la particolare condizione che il paese attraversa attualmente. Volendo essere franchi e andare fino in fondo con i paragoni, è improbabile che negli Stati Uniti e in altre democrazie si verifichino fenomeni quali: 
  • legare le sorti di un governo all’approvazione di alcune leggi nel corso della legislatura; per esempio, pensate che Mr Obama si sarebbe dimesso nel caso la riforma della sanità non fosse passata? Negli USA il meccanismo di votare e “porre la fiducia” al governo in contemporanea non esistono; il Presidente è responsabile di fronte alla Costituzione e ai cittadini anche quando alcune leggi non sono approvate dai due rami del parlamento;

  • ammettere la candidatura a presidente del consiglio/repubblica di un individuo con numerosi e significativi interessi finanziari ed economici nel paese; in Italia manca una legge antitrust, capace di garantire il fatto che coloro i quali sono chiamati a governare e fare le leggi cadano nella tentazione di favorire i propri interessi personali (estesi ai familiari, ovviamente); chi entra in politica, negli Stati Uniti, deve dimostrare di non avere interessi personali e diretti con il substrato economico-finanziario e produttivo del paese; inoltre, la trasparenza nella raccolta e gestione dei fondi del partito è condizione fondamentale;

  • totale indifferenza per gli scandali e le vicende personali; la maggior parte dei governanti in paesi quali Germania, U.K., Danimarca, Svezia, U.S.A., e molti altri, si sarebbero dimessi dalla carica non appena indagati per uno qualunque dei reati imputati all’italianissimo Mr B. La ragione che porta alle dimissioni è semplice. In una democrazia ciò che conta più delle vicende personali dei singoli capi di partito/governo sono le sorti del paese e il bene comune. Solitamente, gli scandali e le vicende giudiziarie comportano una riduzione del supporto elettorale e aumentano il rischio che i voti si disperdano. Qualora il partito ritenesse che l’agenda politica fosse più importante della persona scelta per portarla avanti, le dimissioni (e l’allontanamento temporaneo dalla scena politica) sarebbero benvenute. Gli elettori solitamente premiano un partito in grado di fare chiarezza al proprio interno e di mettere il funzionamento della democrazia davanti alle vicende personali (Nixon ricorda qualcosa a qualcuno?);

  • indifferenza per le vicende personali e private del primo ministro o del presidente della repubblica; su questo punto, lo squallore italiano ha ormai raggiunto un livello che non è possibile commentare;

  • approvare leggi che garantiscano l’impunità a una o specifiche categorie di persone, che siano palesemente incostituzionali, o che abbiano xenofobia, discriminazione e razzismo quali criteri ispiratori;

  • espulsione dal partito per "reati" di opinione, come avvenuto fondamentalmente a Mr Fini e altri parlamentari della destra e, in circostanze e condizioni differenti, a Mr Grillo (nemmeno ammesso) e Mr Vendola, per la sinistra.

Mi fermo qua, penso sia sufficiente. Insomma, Mr Ghirlanda individua un punto probabilmente secondario, se confrontato con altri, ben più rilevanti. Inoltre, non sarei cosi interessato ai “tradimenti” (come nell'articolo citato sopra) dei parlamentari ma alla loro coscienza. Se fossi un elettore democratico e repubblicano della destra, per esempio, chiederei agli eletti un comportamento politico basato sul buon senso; pertanto, l’espressione del dissenso al governo, anche se parte della maggioranza, dovrebbe essere garantita, rispettata, promossa. 
Concludo con una frase che ho trovato in rete: chissà da dove arriva…
“Articolo 67. Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”

Sunday, October 24, 2010

L'importanza di essere analfabeti

In uno degli ultimi numeri della prestigiosa rivista Nature (Vol. 467, No. 7315, p. 499) si legge che le università e i centri di ricerca tedeschi hanno ripreso a contribuire significativamente all'avanzare della scienza. Questo risultato si deve ad un piano di investimenti nella ricerca che ha portato i diversi livelli di governo (soprattutto quello federale) a sostenere e migliorare le infrastrutture preesistenti. Non si tratta esclusivamente della disponibilità di fondi, pubblici e privati, ma della loro distribuzione nel territorio. Gli sforzi per ricostruire la credibilità e i risultati degli istituti dell'Est sono stati costanti e notevoli. Su tutti è utile ricordare l'apertura di nuove sedi dei Max Planck Institute verso Est.

Dopo la riunificazione, seguita al mitico crollo del muro di Berlino, in venti anni la Germania è riuscita a fare con il suo "Sud" (leggi "Est") quel che in Italia aspettiamo dal 1861. È, infatti, in questa chiave che si possono interpretare i recenti "successi" economici e commerciali delle imprese tedesche. Il supporto di attività di ricerca scientifica di altissimo livello produce (a) lavoratori altamente qualificati, (b) manager e direttori che sperimentano nuove tecniche di gestione e capiscono l'importanza di essere "all'avanguardia", (c) una maggiore comprensione, da parte della popolazione in generale e della classe politica in particolare, delle sfide che si presentano sui diversi piani delle dinamiche internazionali, (d) un significativo senso di responsabilità da parte della classe politica nei confronti dei cittadini e di altri "stakeholder" (vedi sotto), collocati al di fuori dei confini dello Stato, ma non meno importanti, (e) la possibilità che imprese possano nascere dai cosiddetti spin-off, ovvero da studenti universitari che trovano supporto istituzionale e fondi privati che favoriscono particolari idee di impresa, (f) molto altro.

Se tutto questo può essere ricondotto agli investimenti in ricerca e sviluppo, come mai--ci si potrebbe domandare--l'Italia non segue l'esempio tedesco (che poi è anche quello degli USA) e investe nella ricerca in modo da garantire una maggiore prosperità in futuro? La risposta sembra essere semplice. Se quanto elencato sopra può essere associato ad un forte finanzaimento della ricerca, cosa è associato ad una mancanza di fondi per la ricerca?

La scarsità di risultati scientifici è solitamente legato a: (1) nanismo imprenditoriale e scarsa attitudine al rischio, (2) più alti livelli di corruzione e disparità tra i sessi, dovuti alla mancanza di educazione al senso della "cosa comune" e alla comprensione di quanto la diversità sia ricca, (3) scarso senso di responsabilità per le proprie azioni, derivante dal mancato esercizio intellettuale di pensare e riflettere attentamente alle conseguenze delle decisioni (fondamento di molti corsi universitari), (4) limitati o assenti supporti alle attività di spin-off, (5) mancanza di una classe politica che si faccia portatrice di interessi che non siano auto-referenziali ma che si ispirino ad un senso etico condiviso dalla maggioranza dei cittadini, (6) lavoratori scarsamente qualificati che si battono, ad armi impari, contro Cina, Brasile, India, invece di costituire un'altrernativa a USA, Germania, Francia. Ci sarebbe dell'altro ma un corollario di quanto scrivo è costituito dalla facilità con cui i poveri di mente (spero non di spirito!) sono influenzabili da potere, minacce, autorità.

Uno dei punti fondamentali è capire l'importanza del concetto di stakeholder. Si tratta di considerare gruppi e individui che influenzano e sono influenzati da coloro i quali prendono le decisioni. È in questo quadro che la decisione della Germania (e dell'Unione) di sostenere la Grecia può essere compresa. Quali sono gli interessi "altri" del paese? Una volta comprese le interconnessioni economico-finanziarie attuali, un passaggio decisamente rilevante è quello di avere degli interlocutori--i cittadini--che possano apprezzare la portata della decisione. Gli stessi motivi che spiegano la modernità della decisione tedesca possono aiutare a comprendere quanto sia difficile che le stesse logiche sii applichino al caso italiano.

In sintesi, l'ignoranza è fondamentale. Infatti consente ad una classe politica scadente di continuare ad esercitare una significativa influenza su cittadini che non hanno gli strumenti intellettuali per distinguere tra la coerenza di un buon argomento dalla logica fallace di uno scadente.

L'unica difesa contro i soprusi è e rimane la conoscenza, la ricerca, l'università.

Monday, October 18, 2010

I morti dell'Afghanistan

Sabato 9 Ottobre, il sito web di Repubblica titola “Farah, strage di italiani: morti 4 soldati”, quello de Il Fatto e quello de La Stampa aprono con “Afghanistan, strage di italiani”, il corriere.it “Afghanistan, quattro alpini uccisi”, sulla home de Il Sole-24 Ore si legge “Quattro militari italiani uccisi e uno ferito in Afghanistan”. Sono andato anche sul sito de La Padania (che peraltro ha un dominio “.org”, come se fosse il sito di un’associazione) ma nulla appare in prima pagina.
Ho dato uno sguardo alle foto dei quattro ragazzi pubblicate in tutti i siti. I loro volti, uno in particolare, sono molto simili a quelli dei miei ex-studenti di Varese. Ho immediatamente letto i nomi ma non ho riconosciuto nessuno. A parte i legami e le emozioni personali, quando dei ragazzi perdono la vita in guerra (o in qualunque altra circostanza), si tratta sempre di un evento drammatico e tragico. Quest’ultimo può offrire alcuni spunti di riflessione sulla guerra in generale, sulla missione italiana in Afghanistan, sulla strategia politico-militare, sulle relazioni internazionali e molto altro. Tutti temi importanti e legittimi. Tuttavia, non sono interessato a discutere di questo ma di quanto pesi il fatto che i morti siano “italiani”.
I nostri giornalisti sono sempre pronti ai titoli ad effetto quando i morti sono italiani. Lo sono meno quando a morire sono americani, inglesi, civili e “terroristi” afgani o di altra nazionalità. Perché si attribuiscono pesi diversi a nazionalità diverse? Perché sottolineare che i morti sono italiani? Come mai i giornali non affrontano la morte in Afghanistan (in questo caso) nello stesso modo a prescindere dalla nazionalità? Interessa davvero sottolineare la provenienza culturale-geografica dei giovani morti? Non è forse tragica in quanto tale la morte di un giovane? 
In guerra si muore. Quando il governo decide di entrare in guerra, ci sono sempre almeno due constatazioni: (a) il fallimento della diplomazia (e/o degli organismi internazionali preposti allo stabilire o ristabilire condizioni di pace) e (b) l’accettare che qualcuno (spesso giovani) si sacrifichi per la causa. Ciononostante, quando la notizia della morte arriva è sempre un dramma. 
Il mio invito è quello di pensare più profondamente alla guerra e alle sue implicazioni. Una morte è sempre tragica, a prescindere dalla nazionalità. Sono i morti italiani più “vicini” di quelli afgani o americani? Non conoscendo i primi, né i secondi o i terzi (come la maggioranza delle persone), ritengo che non si possano fare distinzioni. 
Pertanto, cari giornali e giornalisti, sparate i vostri titoloni di continuo a prescindere dal bieco nazionalismo che continua ad esservi di ispirazione. Ecco un suggerimento: “Anche oggi la morte non abbandona l’Afghanistan”. Magari, a furia di sottolineare che in guerra si muore, qualcuno potrebbe persino ricordarsi di quanto scriveva Einaudi sul Corriere (1917-19) o di aver letto “Un anno sull’altipiano” di Lussu. Ma questo implicherebbe che si tornasse a parlare di questioni futili come, per esempio, quanto la guerra forzi i singoli a pensare diverso ciò che non lo è e come il problema dei conflitti internazionali possa essere affrontato con soluzioni stabili, non ad hoc come quelle attuali. Farneticazioni.

Sunday, October 3, 2010

L’effetto B sull’economia nazionale (II parte)

Eccomi qua a continuare quanto iniziato nel post precedente. Oggi cercherò di completare il quadro scrivendo degli effetti delle politiche economiche del governo di Mr B su (c) debito pubblico; (d) import/export, e (e) disoccupazione. Salvo non sia diversamente indicato, i dati sono quelli di Eurostat.
Il debito pubblico. Come ogni cittadino/a europeo/a ha imparato a conoscere, il limite per il debito pubblico di un paese che faccia parte dell’area Euro è il 60%. L’Italia ha un debito pubblico doppio rispetto a quel parametro. Cosa significa? Beh, a parte i problemi di stabilità per l’intera area, il dato mostra come le finanze pubbliche non abbiano saputo (nei ultimi quattro decenni) amministrare coscienziosamente le risorse a disposizione, spendendo più di quanto non avessero a disposizione. La riduzione della esposizione debitoria è fondamentale per lo Stato così come lo è per i singoli individui. Vorremo capire se e come Mr B abbia aiutato il debito a ridursi, al contrario, abbia contribuito ad una sua ulteriore crescita. Nel Supplemento al Bollettino Statistico No 44 del 2010, la Banca d’Italia pubblica il trend per il nostro paese. Il 2009 ha fatto registrare un +8.5% del debito rispetto al 2008; il dato è 115.8%, misurato come percentuale sul PIL. La variazione 2007-2008 è sempre positiva con un 2.5% circa. Si tratta di un trend comune a tutti i governi? Certo che no. Il governo di Mr P era riuscito a limitare la crescita del debito nel 2006 (+0.6%) e a ridurlo nel 2007 (–2.82%). Nel primo quinquennio, anche Mr B è riuscito, in media, a ridurre il debito di –0.62 punti percentuali sul PIL ma ha lavorato per incrementarlo. Nel 2001 e 2002 infatti l’Italia ha registrato un decremento, diventato poi un incremento del debito nel 2005. Il governo di Mr P degli anni pre-2000 aveva portato il debito a perdere circa il 2.5% ogni anno (con il 2000 anno record: –3.96%). Una buona abitudine abbandonata da Mr B. Volendo fare la media dei vari mandati, Mr B costa all’Italia una crescita del debito annuale di circa 1.2%. I governi di Mr P hanno invece lavorato nel senso opposto (–2.0%).
Import-Export. In molti pensano all’Italia come ad un paese che esporta i propri prodotti. I dati del World Trade Organization (2008) mostrano che il paese ha un deficit nella bilancia commerciale, vale a dire importa beni e servizi più che esportarli. Sia per quanto riguarda il commercio di beni (Import: $504.5 miliardi; export: $491.5 miliardi) che per quanto concerne quello dei servizi (Import: $118.3 miliardi; export: $110.5 miliardi), l’Italia ha invertito il proprio ruolo nel commercio internazionale. Il trend risulta stabile nell’ultimo decennio. E tuttavia, posto che (i) 8 anni su 10 hanno visto Mr B alla ribalta e che (ii) i dati pre-2000 mostravano numeri differenti, si potrebbe forse iniziare a parlare di responsabilità o, comunque, di carenza di supporto governativo alle esportazioni.
Disoccupazione. Il trend della disoccupazione in Italia mostra un calo ogni anno a partire dal 1997 (11.3%) al 2007 (6.1). Il dato per il 2009 è 7.8%—la mia fonte è Eurostat. Questo è un dato positivo e tuttavia molto discusso perché in molti sostengono che ci siano elementi che il numero “medio” non riesce a catturare. Mentre la distribuzione della disoccupazione per età e quella per titolo di studio è sempre stata una delle piaghe del paese, uno sguardo alla sua dispersione geografica è un dato sul quale ci si potrebbe soffermare. Il dato si avvicina allo zero quando la disoccupazione è simile in tutte le regioni; il dato per l’Italia è 16.3 (2007) ed è rimasto più o meno costante fin dal 1999 (17.4). In Francia lo stesso indice si attesta a 6.6 e in Germania è uguale a 4.8 (nel 2007). Non pare che ci sia la volontà, da parte dei governi succedutisi, di ridurre questa disparità che caratterizza il paese. Sicuramente il governo di Mr B non si è distino da chi lo ha preceduto.
Penso che il quadro che ho appena dipinto abbia tinte piuttosto fosche. Cosa ha portato Mr B all’economia del paese? Quali sono stati i vantaggi economici? In che modo la gestione aziendale di Mr B ha aiutato il paese a migliorare la propria collocazione internazionale?
Lascio ciascuno di voi rispondere a queste domande. Di sicuro, i dati mostrano che il paese è più povero, le disparità economico-sociali sembrano aumentate, il divario Nord-Sud cresce anziché diminuire, il debito pubblico cresce e il sistema delle imprese italiane ha perso il loro ruolo sullo scenario internazionale. E’ questo il suo miracolo? Grazie, Mr B.

L’effetto B sull’economia nazionale: 2001-2006, 2008-oggi

Molto di quanto si scrive sul governo di Mr B ha a che vedere con leggi ad personam, processi, dichiarazioni poco accorte di Mr B, ministri e sottosegretari, con la distruzione del poco che rimane della Costituzione repubblicana, con il neo-razzismo della Lega Nord e con molto altro. Pochi si soffermano sui dati economici, che poi sono quelli che determinano il benessere o malessere dei cittadini. Degli ultimi 10 anni, circa 8 sono stati governati dalla destra di Mr B. Penso siano sufficienti per fare un primo bilancio delle politiche di Mr B e per iniziare ad attribuire qualche responsabilità.
Non è mia intenzione quella di scrivere un rapporto in stile Banca d’Italia ma trattare pochi indicatori solamente: (a) prodotto interno lordo (PIL) e relativo tasso di crescita; (b) PIL pro-capite; (c) debito pubblico; (d) import/export, e (e) disoccupazione. Salvo non sia diversamente indicato, i dati sono quelli della Banca Centrale Europea. In questo post tratto solo (a) e (b) per ragioni di spazio.
Il prodotto interno lordo. Il PIL misura la ricchezza di un paese pertanto, si tratta del dato principe per economisti e politici (nonostante siano significative le critiche su cosa sia effettivamente rappresentato dal dato). Nel 2009 il PIL italiano si attesta a € 1,520.9 miliardi (mld). Cosa significa questo numero? Il modo più semplice per capire è quello di fare qualche comparazione. L’Italia pesa per il 17% sull’area dell’Euro, rispetto al 21% della Francia, 26.7% della Germania e 11.8% della Spagna. In termini di peso economico, si tratta di uno dei paesi più avanzati d’Europa e del mondo. Tuttavia, quale era il peso dell’Italia sull’area euro agli inizi del decennio, quando cioè si costituiva la moneta unica? Il peso non ha avuto significative modifiche, attestandosi al 18% agli inizi del decennio; Francia e Spagna hanno guadagnato posizioni e la Germania ha perso circa il 5%. Ma quale è il tasso di crescita del PIL italiano? Quando l’Ulivo ha governato (1996-2000), il tasso di crescita del PIL era di 1.9%. Vediamo Mr B: 0.9% in media dal 2001 al 2005, -1.3% e -5.1% nel 2008 e nel 2009 rispettivamente. Sembra una barzelletta ma il 2007, anno in cui Mr P ha governato, la crescita del PIL è stata del 1.4%. Crisi o non crisi, non sembra che i governi di Mr B abbiano accresciuto la ricchezza totale dei cittadini italiani.
Il PIL pro-capite. Il secondo fattore che intendo considerare è strettamente legato al primo: si tratta del PIL pro-capite, ovvero la ricchezza che, in media, ogni cittadino italiano dovrebbe, in media, ritrovarsi in tasca. Nel 2009 l’Italia ha registrato un dato pari a € 25,240, in calo rispetto al 2008 (€ 26,200). Anche in questo caso, sono le comparazioni che danno un senso al dato—anche se un calo, bisogna dire, è già di per se un segnale negativo e sta ad indicare che il reddito a disposizione di ciascuno è diminuito. Molti paesi hanno registrato un calo nel 2009 e tuttavia Francia e Germania rimangono su livelli molto più alti rispetto all’Italia. Il PIL pro-capite in questi due paesi è rispettivamente € 29,570 e € 29,280. Detto questo, ciò che sorprende maggiormente è che l’Italia, la terza economia dell’area Euro, abbia un PIL pro-capite inferiore alla media, contrariamente a Francia e Germania, #2 e #1. Durante l’intermezzo del governo di Mr P il dato ha sempre fatto registrare una crescita: € 26,040 nel 2007, +3% rispetto al 2006. In media, il governo di Mr B del primo quinquennio degli anni 2000 ha registrato un incremento del 3.2% della ricchezza. Non male, si potrebbe pensare. E tuttavia quel dato è la metà di quanto il governo di Mr P aveva ottenuto nel quinquennio precedente: ~6.8%. 
Questo del PIL pro-capite è un dato molto scarno perché le condizioni reali sono talvolta parecchio distanti dalla media. Mi spiego meglio. Ciò che conta non è solo la ricchezza media ma anche la sua distribuzione. Un paese con un PIL pro-capite molto elevato (come l’Arabia Saudita, per esempio) potrebbe avere una concentrazione di poche persone enormemente ricche, che tirano su il dato, e molte altre enormemente povere. Per calcolare la distribuzione della ricchezza esiste un coefficiente statistico, il celeberrimo (per gli addetti ai lavori) indice di Gini. Questo dato viene calcolato dalle Nazioni Unite (UNDP) e l’Italia ha un coefficiente pari a 36 (1992-2007). La distanza che ci separa dallo 0 (completa uguaglianza nella distribuzione della ricchezza) non sembra molto significativa se si pensa che il limite superiore è 100. Tuttavia, i primi paesi della lista hanno valori pari a 24.7 (#1 Danimarca), 24.9 (#2 Giappone), e 25 (#3 Svezia). Zimbabwe, Nigeria e Gambia si attestano a 50, per fare un altro esempio. 
Senza volermi dilungare oltre, anche in questo caso ciò che conta è l’operato di Mr B. Purtroppo sono riuscito a trovare i dati relativi al 1996-2006 solamente (http://www.eurofound.europa.eu/). Il governo precedente (Mr P) aveva portato l’indice al 29 (2001) dal 32, dato del 1996. Mr B ha portato l’indice al valore di 33 nel 2005. Insomma, con le politiche di Mr B aumenta il divario economico tra ricchi e poveri nel nostro paese. Quelli che stavano meglio, stanno sempre meglio, quelli che stavano peggio…