Wednesday, September 28, 2011

Crisi? Crisi!

Quante volte abbiamo letto che la moneta unica europea non ce la può fare, che l’euro cadrà sotto i colpi della speculazione internazionale, che il progetto è partito con uno o parecchi vizi di fondo. E ancora leggiamo che alcuni esperti di economia e finanza internazionale---molti sono da sempre euro-scettici---condannano le scelte della Germania e dell’area-euro di sostenere le economie in crisi (Grecia in primis). Forse chi scrive in questi termini ha ragione e tuttavia un semplice sguardo prospettico potrebbe suggerire altrimenti. Facciamo un passo per volta.

È banale ricordare, anche se in troppi sembrano essersene dimenticati, che la moneta unica non è altro che l’ultima tappa di un processo iniziato nel 1951, con la fondazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Quali erano gli obiettivi del processo di unificazione europea? Il preambolo del trattato CECA, e di quello che istituisce la Comunità Economica Europa (CEE), risponde alla domanda in almeno due modi: (1) evitare che si scateni un’altra guerra nel continente attraverso (2) l’integrazione di parti sempre più rilevanti della struttura socio-economia dei paesi membri (allora solo 6), per arrivare gradualmente (ma inevitabilmente) ad una vera e propria unione politica. L’euro si inserisce in questa prospettiva. Non è altro che una delle ultime tappe del lungo processo di integrazione che, si auspica, porterà ad una unione sempre più stretta tra i paesi e i popoli del continente.

Dunque l’euro non è un evento separato da tutto quanto lo ha generato e dalle prospettive/problematiche che si sperava aprisse. Una di queste prospettive/problematiche era appunto quella di mettere politica, economia e società davanti ad una evidenza: le economie dei paesi europei necessitano di un governo. Le relazioni economico-finanziarie tra i paesi europei sono ormai così strette che non sembra più possibile andare avanti senza un governo dell’area-euro. In sintesi, la crisi può essere efficacemente fronteggiata non solo costringendo gli Stati nazionali a politiche economiche di rigore e crescita ma con delle azioni uniformi a livello europeo. E queste azioni sono azioni di governo: politiche economiche, sociali e fiscali europee. 

Come sempre in questi casi, vi sono diversi modi per raggiungere l’obiettivo. E gli estremi sono sempre quelli: (a) procedere in modo graduale alla cessione di sovranità nazionale, e (b) creare un governo europeo a capo di uno Stato europeo. 

La crisi è crisi dell’euro e dell’Unione Europea così come la conosciamo. Se accettiamo la prospettiva offerta, potremmo riconoscere che la crisi sia, almeno in parte, dovuta al fatto che negli ultimi 20 anni circa (e precisamente dal Trattato di Maastricht, 1992), il processo di unificazione abbia subito un netto rallentamento, seguito ai primi 40 anni di crescita. La soluzione, qualunque essa sia, dovrà partire da un rilancio del processo di integrazione europea.

A mio modo di vedere, quanto ho scritto sono semplici banalità. È ovvio pensare all’euro non solo come moneta ma come simbolo del moderno tentativo degli Stati europei di superare insieme le difficoltà economiche e politiche che, dal secondo dopoguerra ad oggi, hanno dovuto affrontare. Non si tratta solamente di “economia” o “finanza.” Certamente questa dimensione esiste ed è molto importante. Tuttavia, più importante di questa è la dimensione politica e di significato: la moneta unica è una delle tappe che, si spera, porterà ad una più stretta unione tra i popoli e gli Stati europei. E questo necessita di una più stretta integrazione politica, di un governo europeo.

Ecco perché i commenti strettamente basati su soluzioni economico-finanziarie portano necessariamente a giudizi negativi sull’area-euro e sulle prospettive dell’Europa: perché non colgono l’aspetto fondamentale, quello politico del processo di unificazione. E non considerare l’aspetto politico e di prospettiva significa sottovalutare il problema, non comprendere l’essenza di ciò che l’euro rappresenta per il continente: il futuro.

Un’ultima osservazione. Ho notato che molti dei commenti negativi sull’euro e sulle prospettive della crisi per l’Unione Europea arrivano da economisti “Made in USA” o “Made in UK.” Strano, non trovate? Chissà che non stiano esprimendo in qualche misura del wishful thinking

Saturday, September 10, 2011

Event Finance

In un articolo pubblicato nel 2009 sul Journal of Business Ethics, Jay J. Janney, Greg Dess, and Victor Forlani mostrano come un evento particolare nella vita di 175 multinazionali abbia ripercussioni sul prezzo di mercato delle rispettive azioni. L’evento in questione è entrare a far parte di una iniziativa delle Nazioni Unite, nota come Global Compact (UNGC). Sottoscrivere l’accordo significa manifestare un interesse verso una economia sostenibile attraverso l’applicazione, in azienda, di 10 principii tra i quali vi sono diritti dei lavoratori, diritti umani, ecologia e corruzione. Per mantenere la sottoscrizione attiva, la compagnia deve pubblicare un rapporto annuale nel quale indicare i passi fatti verso l’implementazione o il miglioramento dei 10 principii. Ora, lo studio in questione mostra come vi siano delle reazioni positive, rappresentate da un apprezzamento delle azioni, che fanno seguito alla comunicazione pubblica di sottoscrizione del UNGC da parte dell’azienda.

Non è la prima volta che mi capita di leggere di studi rivolti a cercare un collegamento tra particolari eventi con l'andamento dei prezzi di mercato. Si tratta di una pratica comune per chi studia gli andamenti di mercato e non semplice, posto che la variazione del prezzo ha, di norma, numerose componenti. Tuttavia, e nonostante l’esempio, la mia domanda è sulla seguente proporzione: così come il prezzo delle azioni può essere legato agli eventi dell’azienda che rappresenta, è possibile che l’andamento di un mercato (dell’indice di borsa) sia legato ad eventi particolari che riguardano lo Stato? La risposta sembra essere positiva e, in questo caso, forse più evidente. 

Non è mia intenzione quella di presentare dati e commentare il ruolo di certe scelte politiche. Ho solo la pretesa di indicare che i movimenti negativi del mercato sono una reazione alle misure del governo italiano di fronte alla crisi del paese. Gli operatori di mercato hanno comunicato ripetutamente non tanto quanto la manovra sia inadeguata, questo è evidente, piuttosto, a me pare che la comunicazione sia più del tipo “siete degli incompetenti!” E vorrei andare oltre. 

Mi sembra che questi ultimi eventi assumano una natura paradossale. I governi di Mr B hanno ridotto drasticamente gli investimenti (già piuttosto scarsi) in cultura, educazione, ricerca. Non solo, il governo e i suoi ministri si sono prodigati nel continuo tentativo di sminuire e ridicolizzare tutto ciò che fosse legato alla cultura e alla conoscenza, in generale (per esempio, ricorderete Mr Tremonti quando disse che "la gente non mangia di cultura" o qualcosa di simile). Ora, quale potrebbe essere una legge del contrappasso che “dia una lezione” ad un povero e inconsapevole folle che non attribuisce alcun peso alla conoscenza? Forse qualcosa che lo metta in condizione di rimpiangere di non avere proprio quella conoscenza che ha sempre disprezzato. E magari a fronte di un problema che deve essere risolto. Dunque eccoci alla “lezione” che i mercati nazionali e internazionali stanno dando a Mr B e i suoi sgherri. Non solo Mr B, ministri e sottosegretari non hanno idea di cosa fare ma non hanno nemmeno idea di chi si possa interpellare per una consulenza. Le università? Non direi. Mr Tremonti è un esempio lampante di quanto le università italiane sono in grado di produrre: idee vecchie e poche. Inoltre, i pochi luminari ancora presenti nelle università italiane non scenderebbero certo a compromessi con Mr B. L’analfabetismo del secolo scorso è stato debellato, quello di questo secolo è al governo!

Il problema? Che la “lezione” sarà inflitta non solo ai poveri inconsapevoli che governano il paese e a quelli che li hanno votati ma anche, ahimè, a quelli che di questo “circolo dell’ignoranza” non fanno parte. 

Sunday, September 4, 2011

Storie di libri

Venerdì mattina ho ritirato un libro dalla cassetta della posta all’università. Si tratta del libro A Perfect Mess. Uno dei due autori, Eric Abrahamson, è un collega della Columbia University che ha scritto alcuni articoli interessanti dei quali mi sto occupando. Questo libro è una sorta di elogio del disordine. Sì, proprio così. In sostanza, gli autori mostrano che ci sono dei costi (di tempo, mentali, effettivi) che si associano col tenere in ordine. Ho pensato che, in quanto affetto da disordine cronico e membro attivo dell’associazione “Esteti del disordine,” nella mia biblioteca non poteva mancare questo tomo.

Ma veniamo al reale proposito di questo post: Sapete quanto ho pagato per averlo? Attraverso amazon.co.uk, la mia spesa è stata di £0.01 + spese di spedizione. In totale, ho pagato un paio di sterline per un libro nuovo e di circa 300 pagine. Ironia della sorte, mentre mi veniva recapitato il libro venivo a conoscenza di una strana legge italiana sui libri che sarebbe entrata in vigore a partire dal primo Settembre. L’articolo Ultime ore di svendite su Amazon. Poi gli sconti sui libri bloccati per legge rende noto che non sarà più possibile praticare sconti superiori al 15%. Semplicemente folle. Le ragioni di una simile pensata? Proteggere i rivenditori locali (italiani) dall’avvento di amazon.it. E sapete cosa rende il tutto ancora più incredibile? Il fatto che vi siano alcuni del settore editoriale italiano che si sono espressi a favore della legge.

Partiamo dal presupposto. L’Italia è, tra tutti i paesi occidentali, quello che ha il minor numero di lettori. L’italiano/a medio/a---è risaputo---non legge i quotidiani, magazine, riviste, non naviga su Internet e non legge libri. La spesa in cultura della famiglia italiana è del 2.4% sul totale delle spese (media europea 4.5%; dati 1999; fonte Eurostat 2007, EU Cultural Statistics). So cosa state pensando e mi spiace di smentirvi immediatamente: i dati mostrano che nemmeno chi ha i soldi, in Italia, li spende in cultura. Più di un italiano su tre (36%) dichiara di non aver letto nemmeno un libro nell’ultimo anno (media EU27 è 28%), in Germania e nel Regno Unito lo stesso dato è risponde al 18% (Eurobarometer 67.1, 2007, Tavola QA4.10). 

Sebbene sarebbe interessante indagare sulle cause di questa vergognosa condizione (*) che molto dice sullo stato di economia, politica e società, in questo post non mi pongo il problema.

Vorrei invece porre alcune questioni per capire se la nuova legge---come la ho intesa, attraverso l'articolo sopra citato---aiuti l’italiano/a a leggere di più o se, invece, lo aiuti a rimanere nella sua proverbiale ignoranza (eh già, vista dall’estero è davvero “proverbiale”!!): 
  1. Quando un prodotto non vende, il prezzo dovrebbe calare, in modo da renderlo più appetibile e incrementarne le vendite. In questo modo, lo si rende accessibile, nel caso in cui il prezzo iniziale sia molto alto. Per esempio, un libraio dimezzerebbe il prezzo di un romanzo, le cui copie rimangano invendute sugli scaffali per 12 mesi. Qualora questo non avvenisse, si avrebbero almeno due risultati. Il primo è quello di scoraggiare l’acquisto; a volte si è disposti a spendere €5.00 ma non €10.00 per un romanzo che non sia un best-seller. Il secondo è quello di rendere più difficili le vendite per i librai; questo ovviamente ha ripercussioni sulla catena di fornitura e dunque sull’intero settore.
  2. Un prodotto indesiderato o del quale non si percepisce il bisogno, se offerto ad un prezzo stracciato, potrebbe venire comprato. Che cosa me ne faccio del libro Selected Writings di Joan Robinson? Non è il mio campo, non ho tempo di leggerlo e non immagino che mi possa servire in qualche modo. Ma ecco che sulla copertina leggo che il prezzo è $0.50. “Beh” mi dico “certo che prima o poi, magari, potrei anche leggerlo…” Ovviamente lo ho comprato e ho letto qualche pagina!
  3. Quanto ho scritto nel punto precedente mi è capitato (forse troppo) spesso. Alcuni libri acquistati a poco prezzo sono ancora lì che aspettano di esser letti. Ma questo è un’altro punto importante: il libro è un investimento! Non è necessario che l’acquisto venga letto immediatamente, il libro diventa parte delle potenzialità di lettura, del fatto di avere una scelta di lettura, consultazione, studio, ricerca, altro. Il prezzo di copertina e gli sconti (anche e soprattutto stracciati) consentono ad una persona di aumentare sensibilmente la propria dotazione che, in ultima istanza, è una dotazione di conoscenza.
  4. Uno degli effetti della legge potrebbe essere quello di una diminuzione generalizzata dei prezzi di copertina dei libri. Posto che i successivi sconti non potranno superare il 15%, un libro oggi venduto a €30.00 potrebbe essere prezzato a €20.00 e ridotto successivamente a €17.00. Immaginate però che il libro, in copertina rigida, sia “Il codice Da Vinci” di Dan Brown. Si tratta di uno di quei casi in cui è facile prevedere un blockbuster book in Italia, così come avvenuto nel resto del mondo. In questo caso, sarebbe sensato vendere il libro a €20.00? Pensate che la casa editrice rinuncerebbe a €10.00 per libro? E allora, una volta fissato il prezzo a €30.00, l’unica riduzione possibile sarebbe quella a €25.50. Wow! In questo caso, il sottoscritto non avrebbe mai comprato il libro. Quando lo comprai, infatti, lo pagai l’equivalente di €6.00. Non avrei speso un centesimo di più. Ma ciò che a me pare più rilevante è che ci sono “ondate” di acquisto che garantiscono profitti nel lungo periodo e per lo stesso volume per case editrici e librerie. Senza sconti significativi “di mercato” cade questa ulteriore fonte di profitti. Dunque, il risultato è duplice: meno lettori e meno profitti.
L’ignoranza di chi ha presentato, sostenuto e approvato la legge (in primis Riccardo Levi, PD) è forse frutto del fatto che si legga così poco in Italia. In tutto questo, è forse bene ricordare che l’Italia è stato a lungo un paese escluso da amazon.com. Forse a ragione.


(*) Ecco un elenco succinto di possibili concause: (1) inadeguato sostegno all’educazione, cultura, ricerca; (2) l’Italia è il più vecchio tra i paesi europei (il 24.4% della popolazione ha meno di 25 anni, contro la media europea di 28.6% e il 19.7% di anziani over 65, contro il 16.8% della media EU27); (3) l’italiano con una laurea è raro come il quadrifoglio (nella classe d’età 25-40, solo il 16% ha una laurea e nella classe over 40, il 10%; la media EU27 è rispettivamente di 27.5% e di 19.8%, con i seguenti picchi degli Stati “simili” per dimensione: DE, ca. 24%; FR, 36.7% e 18.5%; UK, 34.7% e 28.1%; ES, 37.2% e 21.5%). Fonte e altri dati disponibili: http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-77-07-296/EN/KS-77-07-296-EN.PDF