Sunday, September 19, 2010

1. Scienziati extra-comunitari

Una delle questioni che animano il dibattito italiano, discussa con ciclicità dai più, riguarda il numero di stranieri nelle squadre di calcio. Si parla di giocatori con passaporto diverso da quello italiano, categorizzati in europei ed extra-comunitari. Mi ha sempre impressionato la mole di argomentazioni portate avanti da quelli che si ritengono contrari alla “barbarizzazione” del calcio italiano, come se si trattasse di una contaminazione, una malattia da estirpare, un male da limitare. In realtà, come spesso dimostrato dalle migliori squadre di calcio europee, raramente la eterogeneità della squadra porta scarsi risultati. Al contrario, questo sistema funziona così bene che stiamo imparando che anche gli allenatori possono essere stranieri!
Non sono un grande conoscitore di calcio (per quello c’è mio padre) e per questo non ho altro da aggiungere su questo punto. Vorrei però traslare il discorso sulle università. Mi sono sempre chiesto come mai nessuno abbia mai pensato di ripetere il “modello calcistico” nei nostri atenei. Non che all’estero non ci siano modelli simili. Al contrario, i migliori atenei stranieri hanno un mix di cervelli provenienti da tutto il mondo. La possibilità di selezionare e assumere ricercatori e professori attingendo da un bacino che sia il più ampio possibile costituisce un punto di forza notevole delle università americane e della maggior parte di quelle europee. Il mercato della conoscenza e della ricerca è un altro esempio, l’ennesimo, di mercato globale. Limitare la possibilità di assunzione solo a coloro i quali conoscono la lingua italiana e la sanno utilizzare correttamente equivale, in scala nazionale, alla proposta di avere insegnanti lombardi nelle scuole lombarde, campani in quelle campane, e così via. Assurdo, no?
La diversità è un valore che andrebbe incentivato e protetto. Perché limitare l’accesso dell’eccellenza negli atenei? Per quale motivo un posto da docente universitario non può essere offerto al più qualificato a prescindere dalla nazionalità?
Il numero di docenti universitari non italiani negli atenei italiani è davvero ridicolo. Se si escludono gli istituti di lingue che, per conformazione e struttura, devono avere docenti e lettori madrelingua, resta davvero poco. Inoltre, se non sbaglio, la legislazione italiana per i concorsi del personale docente di fatto esclude che un non-italiano o una non-italiana possa partecipare. Come conseguenza, non ho mai letto di un’università italiana che pubblichi i propri annunci di assunzione (bandi di concorso) sui siti delle associazioni professionali dei docenti universitari (unica eccezione: Bocconi). 
Ma, al di là del mito delle squadre di calcio e delle migliori università al mondo, quali sarebbero i vantaggi di avere docenti stranieri nelle università italiane? Limito l’attenzione a un paio (alla sarda) di punti solamente.
  • La selezione e l’assunzione di candidati non-italiani implica che la valutazione delle qualità sia fatta sulla base di criteri oggettivi quali il curriculum dei candidati e la qualità generale delle domande pervenute. Questo, a sua volta, impatta sulle clientele/parentele in maniera negativa. Due condizioni affinché questo si verifichi: (1) i criteri di valutazione devono essere stilati (dalla commissione) prima di effettuare la selezione e sottomessi all’esame di un organismo terzo indipendente che ne valuti plausibilità, correttezza ed efficacia; (2) un organismo terzo indipendente rispetto alla commissione dovrebbe anche valutare che il pool di candidati sia sufficientemente diverso (in termini di genere, provenienza, etnia, età, etc.).
  • Qualora la selezione dei docenti universitari fosse portata avanti senza confini nazionali, uno dei risultati più immediati sarebbe quello di un incremento della qualità nella produzione scientifica. Questo punto è semplice da comprendere e si basa sul fatto che quando la selezione dei docenti è fatta sulla base di criteri quali l’attitudine a pubblicare, il potenziale dei filoni di ricerca del candidato e la qualità della didattica si aumentano le chance che il docente sia “produttivo” e ricopra un ruolo da intellettuale attivo nell’ateneo che lo ha assunto. Da una migliore produttività scientifica deriva una migliore qualità dell’insegnamento (almeno dei contenuti se non anche delle tecniche).
  • Da non sottovalutare sarebbe il messaggio di tolleranza e integrazione che l'università darebbe in un sistema sociale deteriorato quale quello italiano. Il mondo della ricerca e della università ritornerebbe, con i fatti, a dimostrare che la cultura e la conoscenza costituiscono strumento importantissimo per superare i pregiudizi e il razzismo.
  • Avete idea di come sia un ambiente di lavoro multinazionale? Io non ne avevo idea prima di raggiungere la University of Wisconsin, qui negli Stati Uniti d’America. Oggi reputo questo aspetto uno di quelli indispensabili per chi si appresti a percorrere la carriera accademica. La diversità stimola la creatività, costringe quotidianamente a non dare nulla per scontato, è un terreno di confronto costruttivo continuo. E, alla fine, si impara ogni giorno qualcosa di prezioso. Non è forse questo che ogni accademico sogna?

In sintesi, le università italiane sono, oggi, luoghi di discriminazione nei confronti di tutti coloro che non hanno la nazionalità italiana e tuttavia possiedono i titoli per poter fare ricerca e insegnare come e (troppo spesso) meglio dei docenti attuali. Il problema non è “far rientrare i cervelli.” Chi è scappato spesso non ha alcuna intenzione di rientrare. Il punto è invece quello di aprire le università a quei cervelli che sono in fuga da altre nazioni. Attirare bravi ricercatori dovrebbe essere l’obiettivo, non ripescare quelli italiani che stanno all’estero. Ancora una volta ripeto: il principio di non discriminazione dovrebbe valere in generale, dunque anche per la ricerca e l’accademia.

Università italiana: possibile rianimare un morto?

Recentemente ho assistito ad una assemblea pubblica di tutti i consigli di facoltà di un ateneo italiano. Una mossa orientata a dare pubblicità al dissenso di tutti rispetto alla più recente riforma Gelmini. Un fiume di interventi e una dichiarazione finale, letta da un rappresentante dei consigli riuniti. Confuso, mi sono allontanato con più dubbi che altro. Che l’ennesima riforma propinata dall’ennesimo ministro sia un obbrobrio o un pasticcio, per me, non era affatto in discussione. Mi aspettavo che gli interventi-fiume rivelassero una proposta alternativa alla riforma o presentassero una qualche analisi sullo stato del sistema universitario. Invece, non ho assistito a nulla di tutto ciò. Ho avuto l’impressione che tutti—docenti, personale amministrativo e studenti—fossero vittime della cosiddetta status quo bias, un fenomeno molto noto tra gli studiosi di comportamento organizzativo (traduzione assurda per “organizational behavior”). Si tratta di quel particolare pregiudizio che ci fa spesso sostenere (anche a torto) che quel che è in essere, ciò che conosciamo, è meglio di qualunque sua modifica. Si tratta, per usare un esempio banale, del fatto che, davanti alla scelta tra involtini-primavera e involtini-qualcos’altro, al ristorante cinese preferiamo i “primavera” semplicemente perché sappiamo di cosa si tratta. Se volete, si tratta di pigrizia mentale. Ma non è solo questo. E’ una potente limitazione cognitiva che opera a nostra insaputa e non ci consente di valutare appieno le alternative in campo.
Scrivo questo non a sostegno della riforma, sia chiaro. Sono tuttavia sconcertato da quanto ho assistito quella sera (non diverso da quanto si legge in genere sui quotidiani e sul web, purtroppo). La classe docente italiana—che espressione!—e’ parte del sistema che critica. Mi spiego meglio. Invece di essere promotrice di innovazione, sviluppo, ricerca, dinamismo, creatività, critica, la ritroviamo avvocato e vittima dello status quo. Per quale motivo? Cosa ne è degli intellettuali e dell’intellighenzia italiana? Perché professori e ricercatori universitari non sono in grado di applicare la conoscenza di cui dovrebbero essere portatori e distributori? L’impresa scientifica italiana è morta?
Il modo migliore per cercare una risposta penso sia quello di ragionare su alcuni punti rispetto ai quali le università italiane mostrano delle carenze al limite della incolmabilità (il rigor mortis è apparente!). In particolare, prima di soffermarsi sulla riforma, sarebbe necessario interrogarsi su alcuni mali strutturali, quali ad esempio:
  • la internazionalizzazione del corpo docente; i ricercatori e professori che operano in Italia sono quasi tutti italiani. Questo indica che le università non sono preoccupate di selezionare “il meglio” ma, al limite, il meglio è limitato a chi ha cittadinanza italiana. Purtroppo, neanche questa seconda ipotesi (meglio della italianità) si avvicina alla realtà;
  • il baronato; i centri di ricerca e le università italiane sono note per i cosiddetti “baroni”, individui che dettano legge ed esercitano poteri pressoché assoluti su tutta una cerchia di “vassalli” e “schiavi.” Non solo questo modo di procedere sembra poco efficiente e improduttivo ma, soprattutto, è immorale;
  • i fondi; il generale stato di povertà della ricerca in Italia non consente a docenti e studenti di intraprendere progetti di ricerca che siano competitivi a livello internazionale. Il punto di partenza potrebbe essere quello di discutere dei salari dei docenti universitari e delle relative loro mansioni. La distanza che separa il mondo della ricerca italiana dal resto del mondo è tale da catalogare il paese come terzo mondo;
  • il collegamento con l’esterno; la famosa torre d’avorio nella quale si rinchiuderebbero i ricercatori non esiste, almeno in Italia. I docenti sono spesso attivi nella società civile e molti svolgono ruoli istituzionali in rilevanti settori dell’economia. Il problema, in questo caso, è quello delle conoscenze di cui i docenti si fanno portatori, spesso antiquate e irrilevanti.

Questi sono i punti che mi piacerebbe sviluppare in successivi post. Appare chiaro che non pretendo di presentare nessuna soluzione al caso quasi-disperato della ricerca in Italia. Tuttavia, per fare una diagnosi occorre confrontare opinioni. Queste sono le mie.

First Post

This is the first post on my new blog.

It is my intention to write both in English and Italian. I mean, it is not my intention to write the same post twice; just to address different topics in different languages, depending on what potential audience is more likely to read.

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Best,
Davide