Thursday, October 13, 2022

Avanti!

I seggi si sono chiusi qualche settimana fa e le destre hanno vinto le elezioni nazionali in Italia. Il partito che direttamente eredita l'ideologia fascista ha preso la maggioranza relativa dei voti (Fratelli d'Italia), sicché l'alleanza con un partito xenofobo e razzista (Lega Nord) e un altro che, sinceramente, non ha un chiaro orientamento se non quello della destra di stampo neoliberista (Forza Italia) permetteranno la formazione di un governo. 

Le sinistre hanno perso le elezioni perché, a detta di molti commentatori, non sono state in grado di presentare un fronte compatto contro l'avanzata delle destre (estreme). In particolare, il Partito Democratico (PD), si sente ripetere, ha perso la capacità di parlare al suo elettorato "naturale" – cioè i lavoratori, comunque definiti. Alcuni commentatori di sinistra sottolineano il fatto che il PD sta affrontando una crisi esistenziale, per così dire. Ci si riferisce al fatto che le regioni italiane storicamente rosse mostrano un trend negativo di consensi al PD e alle sinistre in generale. Il PD non è stato in grado, fino ad ora, di affrontare alcuni dei temi – si dice – che sembrano essere particolarmente sentiti a livello nazionale: precariato, immigrazione, depauperamento del potere d'acquisto, disoccupazione, arretratezza socio-economica del Mezzogiorno (forse questa espressione non si usa più in italiano corrente).

E tuttavia, i commentatori di sinistra continuano, i tentativi fatti fino ad ora sono stati deludenti e hanno portato il partito ad aperture che somigliano alle posizioni di certa destra. Si pensi ad alcune iniziative sul lavoro adottate (e poi fatte decadere) dal Governo Renzi o alle posizioni sull'immigrazione di alcuni dei passati governi. Bisogna parlare agli elettori di questi temi senza cadere nella trappola tesa dalle destre, cioè quella di essere più brave a parlare alla pancia dell'elettorato dunque portare le sinistre su posizioni simili per poi avere gioco facile a convincere l'elettore medio.

Sebbene alcuni dei punti qua sopra siano condivisibili, penso siano esempi degli effetti e non delle cause del problema. In primo luogo, occorre fare chiarezza e guardare all'evidenza senza lasciarsi prendere dall'amarezza di una sconfitta. Il PD è un partito di governo che ha ottenuto vari successi nel corso della sua storia. Da questo punto di vista, il partito comunque raccoglie consensi ed è votato (più o meno da quando esiste) da circa un italiano su cinque. E questo a prescindere da leadership, condizioni macroeconomiche e sociali, e trend storici (vedi sopra). In altri termini, la crisi e meno crisi di quel che appare.

Detto questo, il problema del PD è quello della larga maggioranza dei partiti della sinistra moderata in Europa che, per convenienza, chiamo del raggruppamento parlamentare europeo del Partito Socialista Europeo (PSE). L'Italia non presenta caratteristiche peculiari e uniche da questo punto di vista. Non solo la crisi delle sinistre è un fenomeno continentale ma è affrontata in maniera simile (con incertezza) da tutti i partiti europei. Le soluzioni (che tali non sono) tentate del PD sono state praticate anche dall'equivalente danese, per esempio, che attualmente è in mano all'equivalente locale di Renzi. Il partito francese è cambiato radicalmente lasciando le sue radici storiche e quello tedesco, seppur vincendo le ultime elezioni, ha problemi del tutto simili a quelli del PD in termini di rappresentanza e un generale riconoscimento delle politiche che siano di "sinistra" (vedi immigrazione, per esempio).

Ammesso che il problema delle sinistre è continentale e simile a tutte le sinistre europee, probabilmente la soluzione è, anche quella, da cercare a livello continentale. Tutti i del PSE insistono a guardare ai problemi come se fossero limitati al proprio stato nazione. Come se fossimo ancora negli anni della ricostruzione degli anni Cinquanta o nel boom economico degli anni Sessanta. Le economie e i trend socio-economici dei paesi europei sono ormai integrate. Abbiamo almeno 71 anni di storia comune (per i primi sei) e, a partire dal processo innescato dall'Atto Unico negli anni Ottanta, abbiamo una crescente e significativa integrazione di mercati, capitali, risorse e persone. Esiste una moneta unica che sottolinea il destino comune di alcuni dei più forti (economicamente parlando) paesi di questa Europa. Quello che cerco di dire è che l'Europa è unita nei fatti, per quanto riguarda molteplici aspetti di vita quotidiana dei suoi cittadini. Affrontare i problemi delle sinistre dimenticandosi di questo fatto (storico) significa rifiutarsi di analizzare la situazione per quello che è: la sinistra deve darsi una dimensione europea. 

Questa non può essere semplicemente una vocazione, un qualcosa di annunciato e dichiarato. Deve trasformarsi in un concreto riconoscimento della dimensione del partito, del fatto che le varie segreterie nazionali altro non devono essere che affiliati locali del PSE. 

Questo post sta diventando lungo e bisogna che mi fermi qua. Il messaggio principale sul quale intendevo riflettere è quello che le sinistre europee devono recuperare una dimensione idealista. Questo non significa andare indietro a recuperare le varie tradizioni socialiste e comuniste ma significa guardare avanti per capire quali siano le nuove sfide sulle quali si ha qualcosa da dire, sulle quali si può costruire un futuro migliore. E questo non può che essere una estensione dell'egualitarismo, dei diritti e della coesione sociale a livello continentale. Noi (italiani, danesi, francesi, etc.) staremo meglio quando il sistema europa starà complessivamente meglio. 

D'altra parte, se il sogno di una europa progressista non appartiene alla sinistra, a chi altri? E allora, avanti!

Tuesday, April 26, 2022

La valutazione dell'impatto in accademia

La maggior parte delle università europee sono pubbliche. Questo significa che sono controllate direttamente o indirettamente dallo Stato e dunque sono soggette ai regolamenti del Ministero competente. Da qualche tempo i sistemi nazionali valutano la ricerca con il duplice obiettivo di attribuire i fondi secondo dei criteri di merito (pseudo-oggettivi) e di comprendere meglio la tipologia di attività che sono portate avanti nel settore. In questo breve post non mi soffermerò sui criteri di valutazione in generale—per citare un aspetto critico su tanti, molti ministeri usano delle famigerate "liste" delle riviste accademiche—ma su di una tendenza che è emersa recentemente. Mi riferisco alla valutazione di impatto della ricerca. Vale a dire che i sistemi nazionali hanno iniziato a chiedere che i docenti universitari dimostrino che la propria attività abbia avuto un effetto sulla società e/o sull'economia. Si tratta di una valutazione di esternalità positiva, probabilmente, derivante dall'applicazione di un concetto, teoria, brevetto, o altro, da parte di soggetti esterni alle università.

Quando non si riflette sul significato che questa valutazione comporta, mi pare che si possa dire che si tratta di un aspetto positivo. Soprattutto i non-accademici e tutti coloro i quali non hanno familiarità con i lavori delle università hanno, in generale, un atteggiamento positivo rispetto a questa nuova tendenza. Di fatto, si tratta di una valutazione di rilevanza socio-economica, se si vuole, del lavoro universitario. Una rilevanza esterna che, a detta di molti, costituisce uno dei problemi delle università pubbliche europee. "Finalmente anche gli accademici devono dimostrare quale sia il contributo del proprio lavoro!" alcuni (anche tra i colleghi) potrebbero aver esclamato.

Tuttavia, cosa significa veramente una valutazione di impatto della ricerca? Ho il sospetto che si tratti di un riflesso del cambiamento radicale del ruolo delle università. Pensiamo alla ragione principale del fatto che le università siano enti pubblici. Sono istituti di educazione e dunque organizzazioni nelle quali le "giovani menti" formano le proprie competenze e identità, imparano a confrontarsi con un mondo del lavoro in continuo cambiamento e soprattutto diventano avvezzi ad una forma mentis critica, essenziale per l'adattamento alle condizioni future. Queste sono funzioni essenziali per consentire alla forza lavoro di essere in linea con le esigenze del presente e dell'immediato futuro. Ecco, pertanto, che un primo impatto potrebbe essere rilevato in queste attività accademiche. Anzi, probabilmente, si tratta delle attività principali che garantiscono un essenziale effetto sociale ed economico del lavoro accademico. Ma gli Stati nazionali non sono interessati alla valutazione dell'insegnamento in questo modo. L'impatto di cui si parla è legato alle attività di ricerca.

La seconda ragione sottostante il finanziamento pubblico delle università risiede proprio nel fatto che la ricerca potrebbe non avere alcun impatto immediato. Infatti, se la ricerca è applicata e profittevole di solito viene condotta in una impresa o vi sono interi settori economici che vi potrebbero investire. Ciononostante, potrebbe accadere (e spesso accade) che la ricerca condotta nelle università abbia delle esternalità positive. Ma pensare che l'unica ricerca di rilievo sia quella con un impatto immediato significa rinnegare la ragione stessa di esistenza delle università. Non voglio fare esempi di ricerca apparentemente irrilevante che poi si è manifestata in tutta la sua utilità decenni o secoli dopo. Ora, legare il finanziamento delle università all'impatto "attuale" della ricerca significa minare la sostenibilità della ricerca di base. Si tratta di una mossa che tende a negare la possibilità che, allo stato attuale, le conoscenze non siano tali da comprendere cosa possa essere rilevante in un futuro più o meno lontano. Si tratta, in altri termini, di negare alcune possibilità di crescita e sviluppo.

Ho sempre pensato che l'effetto pubblico immediato dell'insegnamento compensasse il fatto che la ricerca potesse non avere un effetto a breve termine. Probabilmente mi sbagliavo: l'apprezzamento delle sinergie e compensazioni di un sistema non rientrano nel modo di riflettere di una mente ministeriale burocratica.

È difficile stimare l'entità del danno che questo modo di valutare la ricerca potrà avere nel medio-lungo periodo. Non è difficile constatare, purtroppo, che si tratta dell'ennesima applicazione del miope "new public management", una corrente di pensiero orientata ad equiparare la valutazione della "performance" del pubblico a quella del privato. Insomma, una oscenità intellettuale che tanti danni ha causato fino ad ora. La valutazione dell'impatto della ricerca è l'ennesima estensione di questo approccio.

Speriamo si riesca a capire in fretta su quale fronte investire per consentire che la ricerca di base[1] non muoia definitivamente, ipotecando il futuro delle nostre società.

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[1] Includo anche lo spettro delle materie umanistiche (esp. filosofia, letteratura, linguistica, storia, etc.) in questo concetto.