Thursday, October 13, 2022
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Tuesday, April 26, 2022
La valutazione dell'impatto in accademia
La maggior parte delle università europee sono pubbliche. Questo significa che sono controllate direttamente o indirettamente dallo Stato e dunque sono soggette ai regolamenti del Ministero competente. Da qualche tempo i sistemi nazionali valutano la ricerca con il duplice obiettivo di attribuire i fondi secondo dei criteri di merito (pseudo-oggettivi) e di comprendere meglio la tipologia di attività che sono portate avanti nel settore. In questo breve post non mi soffermerò sui criteri di valutazione in generale—per citare un aspetto critico su tanti, molti ministeri usano delle famigerate "liste" delle riviste accademiche—ma su di una tendenza che è emersa recentemente. Mi riferisco alla valutazione di impatto della ricerca. Vale a dire che i sistemi nazionali hanno iniziato a chiedere che i docenti universitari dimostrino che la propria attività abbia avuto un effetto sulla società e/o sull'economia. Si tratta di una valutazione di esternalità positiva, probabilmente, derivante dall'applicazione di un concetto, teoria, brevetto, o altro, da parte di soggetti esterni alle università.
Quando non si riflette sul significato che questa valutazione comporta, mi pare che si possa dire che si tratta di un aspetto positivo. Soprattutto i non-accademici e tutti coloro i quali non hanno familiarità con i lavori delle università hanno, in generale, un atteggiamento positivo rispetto a questa nuova tendenza. Di fatto, si tratta di una valutazione di rilevanza socio-economica, se si vuole, del lavoro universitario. Una rilevanza esterna che, a detta di molti, costituisce uno dei problemi delle università pubbliche europee. "Finalmente anche gli accademici devono dimostrare quale sia il contributo del proprio lavoro!" alcuni (anche tra i colleghi) potrebbero aver esclamato.
Tuttavia, cosa significa veramente una valutazione di impatto della ricerca? Ho il sospetto che si tratti di un riflesso del cambiamento radicale del ruolo delle università. Pensiamo alla ragione principale del fatto che le università siano enti pubblici. Sono istituti di educazione e dunque organizzazioni nelle quali le "giovani menti" formano le proprie competenze e identità, imparano a confrontarsi con un mondo del lavoro in continuo cambiamento e soprattutto diventano avvezzi ad una forma mentis critica, essenziale per l'adattamento alle condizioni future. Queste sono funzioni essenziali per consentire alla forza lavoro di essere in linea con le esigenze del presente e dell'immediato futuro. Ecco, pertanto, che un primo impatto potrebbe essere rilevato in queste attività accademiche. Anzi, probabilmente, si tratta delle attività principali che garantiscono un essenziale effetto sociale ed economico del lavoro accademico. Ma gli Stati nazionali non sono interessati alla valutazione dell'insegnamento in questo modo. L'impatto di cui si parla è legato alle attività di ricerca.
La seconda ragione sottostante il finanziamento pubblico delle università risiede proprio nel fatto che la ricerca potrebbe non avere alcun impatto immediato. Infatti, se la ricerca è applicata e profittevole di solito viene condotta in una impresa o vi sono interi settori economici che vi potrebbero investire. Ciononostante, potrebbe accadere (e spesso accade) che la ricerca condotta nelle università abbia delle esternalità positive. Ma pensare che l'unica ricerca di rilievo sia quella con un impatto immediato significa rinnegare la ragione stessa di esistenza delle università. Non voglio fare esempi di ricerca apparentemente irrilevante che poi si è manifestata in tutta la sua utilità decenni o secoli dopo. Ora, legare il finanziamento delle università all'impatto "attuale" della ricerca significa minare la sostenibilità della ricerca di base. Si tratta di una mossa che tende a negare la possibilità che, allo stato attuale, le conoscenze non siano tali da comprendere cosa possa essere rilevante in un futuro più o meno lontano. Si tratta, in altri termini, di negare alcune possibilità di crescita e sviluppo.
Ho sempre pensato che l'effetto pubblico immediato dell'insegnamento compensasse il fatto che la ricerca potesse non avere un effetto a breve termine. Probabilmente mi sbagliavo: l'apprezzamento delle sinergie e compensazioni di un sistema non rientrano nel modo di riflettere di una mente ministeriale burocratica.
È difficile stimare l'entità del danno che questo modo di valutare la ricerca potrà avere nel medio-lungo periodo. Non è difficile constatare, purtroppo, che si tratta dell'ennesima applicazione del miope "new public management", una corrente di pensiero orientata ad equiparare la valutazione della "performance" del pubblico a quella del privato. Insomma, una oscenità intellettuale che tanti danni ha causato fino ad ora. La valutazione dell'impatto della ricerca è l'ennesima estensione di questo approccio.
Speriamo si riesca a capire in fretta su quale fronte investire per consentire che la ricerca di base[1] non muoia definitivamente, ipotecando il futuro delle nostre società.
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[1] Includo anche lo spettro delle materie umanistiche (esp. filosofia, letteratura, linguistica, storia, etc.) in questo concetto.