Tuesday, November 30, 2010

“Se i ricercatori se ne vanno… portano via il futuro!”

Ho ascoltato questa frase uscire dalla bocca di una ricercatrice italiana, ospite alla trasmissione “Vieni via con me” di lunedì 29 Novembre 2010. 
I ricercatori se ne vanno… “So what?” mi verrebbe da scrivere. Vale a dire, e con questo? Il problema non e’ tanto che i ricercatori se ne vanno dall’Italia ma che non ne arrivano. Cerco di spiegarmi meglio.
Il ricercatore entra a far parte delle università, non a caso. Esiste un mercato del lavoro che mette in relazione l’offerta di lavoro, ossia le esigenze delle università e degli istituti di ricerca, con la domanda di lavoro, cioè il bisogno dei ricercatori di trovare una posizione consona alle proprie competenze. In un passato non troppo lontano, l’incontro tra domanda e offerta avveniva all’interno del mercato nazionale. In sintesi, ricercatori italiani erano assunti in istituti italiani, quelli francesi in istituti francesi, quelli inglesi in Inghilterra, etc. Una certa mobilità, tuttavia, c’è sempre stata. Gli atenei e i centri più importanti attirano, solitamente, le menti migliori. Per questa ragione abbiamo Oxford e Cambridge, per esempio. Questa tendenza ad andare a cercare lavoro in mercati di altri paesi si è accentuata, recentemente. Per quale ragione? Ci sono due fattori “strutturali” per così dire. Il primo riguarda quanto avviene in tutto il mondo. La facilità di accesso all’informazione porta, da un lato, gli istituti di ricerca e le università a pubblicare gli annunci di lavoro in siti Internet specializzati (quelli delle associazioni professionali suddivise per disciplina scientifica), e dall’altro lato, i ricercatori a consultare quegli elenchi e sottoporre le proprie domande di lavoro ad istituti diffusi su tutto il territorio mondiale. Il secondo fattore riguarda l’Unione Europea e una delle quattro libertà garantite dai Trattati: quella di movimento delle persone. I ricercatori italiani sono anche ricercatori europei. Questo significa che, come ogni altro lavoratore, possono accettare un lavoro in qualunque ateneo o centro di ricerca europeo senza dover morire sotto il peso della burocrazia.
Esiste un caveat a questo ragionamento: il fatto che le università possano e vogliano accettare domande ed eventualmente assumere personale dall’estero. Le università italiane, per esempio, non lo fanno. E questo è testimoniato anche (e soprattutto) dal fatto che i programmi di dottorato italiani hanno una percentuale molto bassa—irrilevante—di studenti stranieri. L’Italia della ricerca non è attrattiva, fallisce esattamente dove dovrebbe eccellere.
Il dramma di questa ennesima riforma dell'università non è quella di chi, selezionato dal barone di turno (ancora l’unica via per avvicinarsi al mondo della ricerca in Italia), non viene assunto o non progredisce nella carriera. Il dramma non è che le università private siano avvantaggiate. Anche se il modello europeo non si basa su questo, immagino che avere due o tre Bocconi sul territorio nazionale non sia esattamente un danno.
Il dramma è che la riforma fallisce, per l’ennesima volta: (a) nel garantire che gli atenei italiani possano aprire le porte ai ricercatori migliori e assumere “globalmente” o su base continentale; (b) nell’indicare criteri di valutazione e assegnazione di fondi e avanzamenti di carriera più oggettivi e condivisi, basati sulla responsabilizzazione degli atenei e non sul criterio della punizione (come sembra emergere dallo stato attuale delle cose); (c) nel fornire le università e i centri di ricerca delle risorse necessarie, pari a circa 1.8 o 2.0 punti percentuali sul prodotto interno lordo. Il punto (b) implica che occorra dare autonomia agli atenei, in modo da consentire assunzioni “libere” di ricercatori, secondo criteri stabiliti da Facoltà e/o Dipartimenti, tenendo conto che le risorse dovrebbero poi essere distribuite in funzione della produttività scientifica (in primis) e della qualità dell’insegnamento. Dunque, quando un ateneo assume degli asini, ossia utilizzando criteri di selezione del personale che non siano sufficientemente rigorosi, si ritrova a dover sopravvivere con meno fondi. In sostanza, ogni ateneo è artefice del proprio destino.
In sintesi, il futuro del paese è a rischio non perché i ricercatori se ne vanno ma perché non ci sono le condizioni per assumere “globalmente” e garantire una “sana” diversità all’interno degli atenei e centri di ricerca:
Se i ricercatori non sono attratti dall’Italia… non c’è futuro!